La campanella, appena lucidata, rifletteva tutte le luci del lampadario settecentesco posto al centro del soffitto affrescato. In sé, rappresentava un irresistibile invito all’infrazione del protocollo: il presidente del consiglio in pectore, infatti, non dovrebbe avvicinarsi, tantomeno toccarla. Gli unici titolati a farlo sono il presidente della repubblica e il presidente del consiglio uscente: Gianluigi Buffon, tuttavia, non lo sapeva. E se lo sapeva, fingeva di essersene dimenticato: chi avrebbe mai potuto dire qualcosa al nuovo capo dell’esecutivo?
Buffon si avvicinò alla campanella mostrando un’espressione impertinente, quasi a voler dire “ho vinto sette campionati e una coppa del mondo, chi cazzo vuole provare a fermarmi?”. La first lady Ilaria d’Amico comprese immediatamente le intenzioni dell’ex-portiere e si parò davanti al cuscinetto color bronzo su cui si stagliava la campanella. “Non ci pensare neanche, scimmione. Questo è il nostro momento. E quindi anche il mio momento. Prova a fare una stronzata e non te la do più fino a fine mandato”. Colpito sul vivo da ciò che, da sempre, era il motore del suo agire, Buffon arretrò e, mantenendo un’espressione sfrontata, come se nulla fosse successo, tornò al proprio posto.
Buffon si avvicinò alla campanella mostrando un’espressione impertinente, quasi a voler dire “ho vinto sette campionati e una coppa del mondo, chi cazzo vuole provare a fermarmi?”
In fondo, a Ilaria doveva molto. Anzi doveva tutto. A giugno 2017, infatti, nonostante avesse il rinnovo del contratto già in mano, aveva sentito che qualcosa si era rotto. Gli pesava l’idea di tornare, poche settimane dopo, in ritiro. E poi un’altra stagione e un altro mondiale. Un altro anno uguale a ogni altro: i pullman, gli hotel a cinque stelle, le vacanze natalizie al Sestriere con Bonucci e Chiellini… Insomma, aveva sentito il bisogno di rifuggire dalla routine. Aveva capito subito che il momento, quel momento di cui Peruzzi gli aveva parlato spesso al telefono, era arrivato. Non ci teneva a fare la fine di Totti: prigioniero di una città, prigioniero del proprio ruolo, prigioniero della propria paura. Una paura ben riposta, peraltro, perché Totti – e questo lo sapevano tutti – non avrebbe saputo fare nient’altro. E così, poiché nessuno in società voleva dargli un ruolo da dirigente, aveva scelto di prolungare l’agonia: ogni stagione un minutaggio sempre inferiore, una serie sempre maggiore di acciacchi e infortuni, un malumore crescente che si traduceva in dichiarazioni passivo-aggressive a fine partita.