Brexit, un anno dopo
A un anno dal referendum inglese del giugno 2016, la redazione del Guardian fa un bilancio della Brexit, valutando anche le prospettive future dopo il Consiglio Europeo della scorsa settimana. Secondo il quotidiano, dopo lo shock iniziale la reazione degli Stati membri all’esito del referendum si è orientata verso un generale senso di compassione nei confronti del Regno Unito. Secondo il Guardian, durante l’ultimo Consiglio si è consumata un’umiliazione del premier britannico, al rifiuto da parte degli stati membri della proposta di May sullo status dei cittadini comunitari in UK.
Sempre sul Guardian, Paul Mason sottolinea come il piano britannico per i diritti dei cittadini europei in UK non fosse comunque all’altezza delle aspettative: secondo il piano della May i cittadini dell’UE dovrebbero fare richiesta per ottenere il cosiddetto “settled status” (status di persona stabilita) e non godrebbero del diritto di voto nemmeno nelle elezioni locali. Secondo Mason una proposta del genere non farebbe altro che aggravare il deficit democratico dell’UE, e avrebbe l’ulteriore difetto di peggiorare le condizioni dei lavoratori meno tutelati e allontanarli dalla vita pubblica.
Sull’Indipendent, Thom Brooks sostiene che l’approccio alle trattative di Theresa May stia progressivamente orientandone l’esito verso la cosiddetta hard-brexit, anche perché, sostiene Brooks, l’impressione è che May navighi a vista, modificando di volta in volta la natura delle sue richieste e mettendo così a rischio le negoziazioni. Secondo Gina Miller (The Indipendent) la freddezza chirurgica, l’efficienza e la rapidità mostrate dai leader europei nell’affrontare il fascicolo Brexit nell’ultimo Consiglio Europeo mostrano come, alla fine, sarà l’Unione a dettare la versione finale del Brexit Deal.
I pericoli della socialdemocrazia
Un altro tema che ha suscitato accese discussioni nelle scorse settimane è quello del destino dei partiti socialdemocratici in Europa. A proposito del Partito Laburista, Owen Jones sul Guardian sostiene che, Corbyn sta mostrando un’inaspettata capacità di conquistare elettori appartenenti tanto alla classe media quanto alla working class.
Prendendo spunto dal successo del discorso di Corbyn al Glastonbury festival, Jones sostiene che alla recente impennata del Labour abbiano contribuito anche gli hipsters della sempre corteggiata middle class. Inoltre, le promesse di Corbyn sono allettanti sia per la classe media sia per i lavoratori, dato che un aumento del carico fiscale sui più ricchi consentirebbe maggiori investimenti in educazione, servizi di welfare e infrastrutture.
Ma i partiti socialdemocratici sarebbero effettivamente in grado di governare e allo stesso tempo attenersi alle loro istanze programmatiche più radicali? Se lo domanda la redazione di Le Monde, in un editoriale in cui si argomenta che la recente storia delle socialdemocrazie tedesca e francese rende evidente che la capacità di governare, da una parte, e di difendere la propria base identitaria ed elettorale dall’altra, sembrano essere aspetti opposti piuttosto che complementari.
Una visione simile si trova su El Pais, a firma di Xavier Vidal-Folch, che critica l’annuncio da parte del PSOE di una possibile astensione nell’imminente voto parlamentare sull’accordo commerciale tra Unione Europea e Canada (CETA). La rinnovata opposizione al CETA è dovuta alla recenta vittoria di Pedro Sanchez alle primarie del partito. Sanchez ha vinto con un programma orientato a riguadagnare l’appoggio degli elettori di Podemos, con posizioni per certi versi simili a quelle delle destre protezioniste di tutto il mondo. Una eventuale astensione avrebbe l’ulteriore effetto di minare la credibilità del PSOE agli occhi dei partner europei.