Ci sono infiniti modi di vedere la Cina e ci sono infinite ragioni per farlo, perché quel che accade oggi a Pechino ha più impatto che mai sul resto del mondo, inclusa questa parte. A più di 15 anni dall’ingresso della Paese asiatico nel Wto, che ha stravolto la globalizzazione come l’avevamo conosciuta fino ad allora, siamo alla vigilia di un’altra trasformazione epocale, quella delle produzioni cinesi di alta qualità che domineranno i mercati internazionali.
Uno dei modi possibili di guardare alla Cina è quello di guardare alle grandi opportunità che apre alle società che vi vogliano investire ed esportare. Il Singles’ Day di Alibaba – 25,3 miliardi di dollari di acquisiti in un giorno, pari al totale dell’ecommerce italiano in un anno – dà l’idea del potenziale per le nostre imprese, dato che su 140mila società che hanno venduto in quel giorno, 60mila sono state straniere. La Cina dei consumi è quella di una classe media in grandissima ascesa, che già oggi ha superato per numero quella degli Stati Uniti, divenendo la prima al mondo, e nel 2022 punta a contare 250 milioni di persone. Già nel 2016 stiamo parlando di consumi al dettaglio pari a 4.165 miliardi di euro, con una salita del 9,6 per cento. La percentuale di crescita è destinata a confermarsi nei prossimi anni, dato che è pienamente coerente con il piano, previsto dall’ultimo piano quinquennale e spinto da un presidente Xi Jinping più potente che mai dopo il XIX Congresso del Partito comunista cinese dello scorso ottobre, di passaggio da un modello economico basato sugli investimenti a uno basato sui consumi.
A questa Cina dei consumi si rivolgono da anni le società che esportano o che hanno scelto da anni di internazionalizzarsi nel Paese. Lo si è visto chiaramente al sesto Forum dell’internazionalizzazione del Made in Italy, organizzato da Messe Frankfurt in collaborazione con la Fondazione Italia Cina ed Elle Decor Italia. Le testimonianze dirette sono state numerose, da Brembo a Scavolini, da iGuzzini a Redi a CleNet Technologies. A queste imprese dedica i propri pensieri Detlef Braun, membro dell’executive board del gruppo fieristico tedesco, che in Cina organizza tra le altre la fiera InterTextile di Shanghai, dedicata ai tessuti e all’abbigliamento. «A trent’anni dalla prima manifestazione di Messe Frankfurt in Asia – commenta – la Cina continua a rappresentare un mercato dalle grandi potenzialità, tanto che il gruppo ha sviluppato oltre 40 fiere, collaborando con le principali associazioni di settore». Gli eventi, aggiunge, «sono diventati un punto di riferimento per molti settori produttivi quali il tessile moda e il tessile tecnico, i beni di consumo, l’automotive, la musica, l’illuminazione, il comparto idrotermosanitario, che registrano la partecipazione delle più importanti realtà italiane».
«Il piano è la definitiva morte dell’idea occidentale di un Made in China come qualcosa di bassa qualità»
Durante l’incontro non è però stato messo un velo sulle strategie industriali cinesi e sul modo più corretto con cui rapportarvisi, ossia guardare le cose come stanno. Il punto imprenscindibile è il piano Made in China 2025, uno dei pilastri del piano quinquennale, per certi versi simile al piano Industrie 4.0 sviluppato in Germania ma in realtà dalle ambizioni molto maggiori. «Il piano è la definitiva morte dell’idea occidentale di un Made in China come qualcosa di bassa qualità», ha detto ha messo subito in chiaro Francesco Boggio Ferraris, direttore della scuola di formazione della Fondazione Italia-Cina. Il concetto da capire, ha aggiunto, è che il progetto prevede due fasi. La prima è quella delle acquisizioni di società occidentali, allo scopo di ottenere il know how necessario per incrementare l’automazione e le produzioni di qualità. Oggi in Cina ci sono 49 robot per 10mila abitanti, contro i 532 della Corea del Sud. La seconda fase sarà quella di «raggiungere un livello di innovazione indigena molto importante, per far sì che il 70% della quota domestica di componenti di manufatti sia realizzata in Cina» ha continuato Boggio Ferraris.
Il concetto è ribadito nel Rapporto 2017 della stessa Fondazione Italia Cina. «Un tale intendimento accrescerà opportunità e competizione per le aziende italiane, che inizialmente potranno beneficiare della domanda cinese per prodotti altamente tecnologici, ma su tempi più lunghi – se impreparate nell’ambito di ricerca e sviluppo – dovranno affrontare la concorrenza di aziende cinesi che punteranno a primeggiare innanzitutto nel mercato domestico, in un contesto più ampio, però, di globalizzazione cinese». Il riferimento è alla nuova Via della Seta (o One Belt One Road) che, ha ribadito Filippo Fasulo, coordinatore scientifico CeSif, il centro studi della fondazione, va ben oltre la questione delle infrastrutture e rappresenta lo strumento per una via cinese alla globalizzazione.
Il piano Made in China 2025 «accrescerà opportunità e competizione per le aziende italiane, che inizialmente potranno beneficiare della domanda cinese per prodotti altamente tecnologici, ma su tempi più lunghi dovranno affrontare la concorrenza di aziende cinesi che punteranno a primeggiare innanzitutto nel mercato domestico, in un contesto più ampio, però, di globalizzazione cinese»
È all’interno di questo scenario che vanno lette alcune acquisizioni, come quella di Volvo da parte della società cinese Geely Automobile; quella della società tedesca di robotica Kuka da parte della cinese Midea, per 4,6 miliardi di euro; e anche operazioni come l’arrivo a Rivoli, in provincia di Torino, di Changan Automobiles. Si tratta di una società che ha installato nel comune torinese un centro di studi e design per progettare, con 200 ingegneri e designer italiani, Suv da realizzare in Cina (il fatturato 2016 è stato di 25 milioni di euro). Va da sé che con questi occhiali vanno viste le voci della scorsa estate, poi smentite, di un interesse di una società cinese di automobili per Fca e in particolare per il marchio Jeep.
Essere consapevoli di questi effetti – senza ripetere le ingenuità avvenute prima dell’11 dicembre 2001, data dell’ingresso della Cina nel Wto – non vuol dire chiudersi con muri. Non basterebbe a fermare un processo avviato che ci piaccia o meno. A ricordare la distanza tra le parole e la realtà sono d’altra parte i contratti per 250 miliardi di dollari siglati durante l’ultimo viaggio del presidente Usa Donald Trump a Pechino. Tuttavia, se non dei muri, dei paletti possono essere messi. Nell’ultimo discorso sullo Stato dell’Unione il presidente della Commissione europea, Jean Claude Juncker, ha enunciato la volontà di effettuare uno screening preventivo sugli investimenti cinesi in Europa, volto a evitare acquisizioni che non abbiano una logica di mercato e siano guidati solo da una volontà politica, come avviene nel caso di take over da parte di aziende senza adeguata dimensione. Al forum Fimi il vicepresidente del China National Textile and Apparel Council, Xu Yingxin, ha detto che ci possono essere tre filoni di collaborazione: il supporto agli accordi di libero scambio tra Ue e Cina; la collaborazione tra Ue e Cina per lo sviluppo di tecnologie; e la collaborazione tra brand.
Qual è la posizione del governo italiano su questi temi? Una risposta è stata data a Linkiesta dal sottosegretario allo Sviluppo economico Ivan Scalfarotto, durante un incontro sull’e-commerce in Cina, lo scorso 19 settembre a Milano: «La posizione del governo italiano è molto chiara: noi siamo a favore del libero commercio. Il libero commercio deve essere però equo. Questo significa che pur avendo un rapporto di grande apertura con la Cina, noi chiediamo per esempio che siano risolti dei temi, come l’overcapacity nel settore dell’acciaio. Siamo stati in prima fila in questa richiesta, quando si è discusso dello status di economia di mercato della Cina». Quanto alle acquisizioni allo scopo di ottenere il know how? «Sul know how è la stessa cosa – è stata la risposta di Scalfarotto -. Ci deve essere reciprocità. L’investimento è benvenuto qui as long as il nostro investimento è benvenuto lì. Noi come governo vogliamo attrarre investimenti, abbiamo creato una cabina di regia a questo scopo e io giro il mondo per incontrare i fondi sovrani. Però la libertà richiede sempre l’equità, il rispetto delle regole, che significa la reciprocità. Quando questo viene meno, poiché non pensiamo che la libertà sia l’anarchia, siamo fermissimi, proprio perché siamo in buona fede».