Ci sono partite e sfide più grandi di noi, che non possiamo vincere in nessun modo, per quanto ci sforziamo. Sono batoste, a volte inevitabili, che tutti prendiamo nel corso della vita, ma la ferita che esse lasciano, a volte, è più grave e più profonda della sconfitta stessa.
Non sono niente di più che delle battaglie perse, se ci fermiamo a riflettere con lucidità, a freddo, ma come possiamo evitare che esse si trasformino nella sconfitta definitiva, come accade quando ci lasciamo sopraffare? Lavorare su noi stessi significa imparare a rendere le sconfitte e le cadute un patrimonio, anziché una disfatta epocale.
Più facile a dirsi che a farsi, ovviamente, ma se non siamo disposti a fare questo lavoro, invece che fuggire a rifugiarci nella bolla ovattata della delusione, con ogni probabilità resteremo a lungo o per sempre agganciati a un passato che ci zavorra a terra, costringendoci a cercare alibi e scuse, anziché soluzioni e progetti per ripartire.
Proviamo a ragionare, dunque. Tutti noi viviamo in un tempo sospeso tra un passato che non potrà tornare e un futuro che non è già scritto o predeterminato e che, nella maggior parte dei casi, non dipende esclusivamente o prevalentemente dalle nostre scelte presenti o passate, per quanto possa esserne influenzato. In qualche misura esse influiscono sul nostro destino, ovviamente, ma in modo molto meno incisivo di quanto non riusciamo a immaginare.
Chi di noi, ad esempio, non conosce un compagno di scuola o un amico d’infanzia che all’epoca ci sembrava spacciato e destinato ad un gramo futuro, per via della sua inconcludenza o per la sua scarsa capacità o propensione allo studio? Quante persone che oggi definiamo “di successo” provengono da famiglie modeste, da storie difficili o addirittura dalla povertà più nera e da problemi all’apparenza insormontabili?
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