Sallusti: «Sono un tipo chiuso e noioso, quando sono in tv mi pesa dover apparire brillante»

Intervista al direttore del Giornale che parla dei suoi inizi come giornalista e dei suoi rapporti con Berlusconi, Montanelli e Travaglio. Di sé dice: «Sono noioso, timido e chiuso. La mia chiarezza nello scrivere? Figlia della mia ignoranza»

Parlandogli, ho come la sensazione di conoscerlo da sempre. Ma è solo dopo, ripensandoci, che comprendo: in realtà lo frequento a sua insaputa da anni, da che lo leggo sui fondi di “Il Giornale” e “Libero”. Ho studiato la sua prosa, le sue frasi, i punti e le virgole. Non so se se ne renda conto, ma c’è un qualcosa di intimo e bonario nel modo in cui mi si rivolge, un senso di comprensione paterna. Per una volta penso che sia bello entrare in contatto con uno dei propri miti, “di solito sempre deludenti” dice lui. Non è questo il caso. L’uomo che si definisce noioso, chiuso, poco propenso al contatto e per niente brillante come nei suoi scritti, ha invece in sé una forza inscalfibile che manifesta con compostezza e insolita umiltà. Come spesso mi capita quando incontro qualcuno che, pur senza averlo fatto intenzionalmente, mi ha dato molto, sento una strana forma di gratitudine nei suoi confronti di cui un po’ mi vergogno. In fondo, sono pochi quelli, almeno tra i giornalisti, verso cui senta di avere un debito: lui, Indro Montanelli, Oriana Fallaci, Vittorio Feltri. Degli altri salverei forse Travaglio e Scanzi. Quando finalmente riesco a mettermi in contatto con Alessandro Sallusti, lo travolgo con una mitragliata di domande. Non so dove abbia trovato la pazienza per starmi dietro. Scusandomi, senza che mi venisse chiesto, gli ho detto che mi serviva per tracciare un ritratto umano a tutto tondo. Era vero. Ancora di più, però, desideravo semplicemente parlargli e così mi sono diviso tra il ruolo di intervistatore e quello di spettatore di un momento che aspettavo da tempo.

Direttore, non le viene mai la voglia di mollare tutto? La criticano, la insultano, le danno del servo, la costringono agli arresti domiciliari. Come fa a sopportare tutto questo odio? Non si ritrova mai esausto e privo delle forze necessarie per continuare?

No, mai. Ho avuto una grande fortuna nella vita, fare il mestiere che sognavo fin da bambino. Di solito a quell’età si desidera diventare un astronauta, un calciatore, un attore. Io sognavo di fare il giornalista. E, per tutta una serie di fortuite coincidenze, ci sono riuscito. Conosco invece molte persone, amici, che nella vita hanno avuto successo, ben più di me, eppure quasi tutti sono tormentati dal pensiero di non aver fatto esattamente ciò che avrebbero voluto. Io, al contrario, ho avuto questo privilegio. Se mi dovessero chiedere “Hai mai lavorato un giorno in tutta la tua vita?”, risponderei di no. Essere pagati per ciò che si sognava di fare, non è un lavoro. Infatti, in sessant’anni, non mi sono mai alzato la mattina pensando “Oddio, devo andare a lavorare”. Una passione così forte non può che farti da corazza contro qualsiasi avversità.

Quando ha sentito per la prima volta la pulsione alla scrittura, prima o dopo essere entrato nella sede di un giornale?

In principio ci fu un grande equivoco, perché io immaginavo che fare il giornalista non consistesse nello scrivere, ma nel trovarsi nei posti giusti al momento giusto ed essere testimone degli accadimenti, dalla guerra a una partita di calcio. Mi piaceva l’idea di trovarmi sul posto e non avevo molto chiaro che poi, a un certo punto, il giornalista deve smettere di girovagare e cominciare a scrivere. Sicché, prima di un certo periodo, non avevo mai esercitato la scrittura. La mia storia è quella di una modesta famiglia di Como, una città di provincia, in cui il primogenito veniva mandato a studiare per fare da ascensore sociale alla famiglia. È il caso, per esempio, di mio fratello, che ha seguito tutto l’iter fino a diventare medico. Il secondogenito, cioè io, veniva solitamente mandato a lavorare. Pertanto i miei mi iscrissero all’Istituto Tecnico – sono perito chimico –, cosicché avrei poi avuto un posto sicuro in fabbrica. Io, però, che sognavo e brigavo per fare il giornalista, in quel periodo in cui nascevano le prime radio e tv private, nella seconda metà degli anni ’70, invece di andare a scuola, andavo a fare il galoppino. Addirittura portavo il caffè nelle redazioni, in particolare alla sede distaccata che “La Notte” di Milano aveva a Como. Morale della favola, marinavo la scuola e non aprivo libro. Così non fui ammesso alla Maturità… A furia di bazzicare nei posti giusti, cominciarono ad affidarmi i primi articoli e mi ritrovai nella situazione che, quando dovevo scrivere la parola “scienza”, non sapevo se ci andasse la “i” o meno. Avevo anche dei seri problemi con i congiuntivi. Mi ricordo che stavo alla scrivania, con davanti la macchina da scrivere, tenendo il vocabolario aperto sulle ginocchia per non farmi vedere dai colleghi. A quel tempo non ero ancora assunto, ero abusivo – realtà diffusissima allora. Ogni due parole controllavo se ci volesse o meno una doppia. Per cui, in principio, scrivere per me fu una sofferenza – proprio non sapevo farlo. Il rovescio della medaglia di tanta ignoranza è che sei portato a semplificare i problemi più articolati, non essendo in grado di trattarli nella loro complessità. Che cosa mi è rimasto di quell’inizio traumatico? Per cominciare, ancora oggi, quando mi siedo al pc per scrivere, soffro: una specie di trauma infantile, come quando si viene morsi da un cane e si continua di conseguenza a serbarne la paura a vita. La seconda cosa è che, in ragione della mia tendenza a semplificare, spesso mi capita che, quando qualche lettore mi incontra, la prima cosa che mi fa notare di un articolo non è tanto il fatto che sia interessante, quanto che sia scritto in modo chiaro. E questa chiarezza che mi è riconosciuta è, appunto, figlia dell’ignoranza, del non poter scrivere complesso a causa delle mie carenze. In ultimo, la semplicità è diventata un valore per me – la mia personale risposta a questo mondo in cui tutti complicano tutto, compresa la scrittura. Per fortuna, a quanto pare, qualcuno apprezza la mia scelta.

Su quali letture ha formato il suo stile?

Non sono state tante, perché da giovane non leggevo molto. Diciamo che la lettura è diventata solo dopo un dovere e una passione, con la maturità. Da ragazzino lessi comunque Salgari, interamente, perché accendeva le mie fantasie di poter essere un giorno un inviato in luoghi esotici. Da adolescente, credo di essere stato uno dei pochi ad aver letto tutto Buzzati. È un autore dotato di una semplicità di scrittura e una malinconia nelle quali mi ritrovo particolarmente. Non so se sia tanto o poco ma, se ho avuto un maestro di scrittura, quello è stato lui. Poi, un po’ più avanti con l’età, quando iniziai a bazzicare i giornali, presi a leggere le grandi firme come Montanelli, Prezzolini, Brera. Insomma, sono cresciuto leggendo “Il Giornale”.

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