Così Anthony Burgess si comportava in stile “Arancia meccanica” con Umberto Eco

La maliziosa stroncatura dello scrittore inglese nei confronti del semiologo piemontese. Secondo Burgess “Il nome della rosa” era un manuale per capire come era fatto un monastero del Medioevo, e nulla più

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L’arguzia, salace e salata, di Anthony Burgess è un insegnamento giornalistico doc. Nel 1983 Burgess – che morirà dieci anni dopo, e quanto ci manca il suo salutare cinismo – è una autorità. Ha pubblicato i libri maggiori, compreso, da poco, il suo capolavoro, Gli strumenti delle tenebre, edito nel 1980. Nello stesso anno, in Italia, Bompiani pubblica Il nome della Rosa, il romanzo storico di un insigne intellettuale, Umberto Eco, che l’anno dopo vincerà il Premio Strega. Il romanzo, si sa, diventa un bestseller internazionale: in quel 1983 esce in Inghilterra, per la traduzione di William Weaver (che in inglese ha tradotto tutto Calvino, di tutto, da Gadda a Primo Levi, da Moravia alla Fallaci e che da allora sarà il traduttore di un bel tot di libri di Eco). Giornalista dalla penna irritante, Burgess distilla veleno dal miele: non si produce in una ‘stroncatura’ – genere ‘urlato’ a lui poco confacente in ambito libresco – ma disseziona con malizioso garbo il corpo del Nome della Rosa. Sostanzialmente, ritiene Eco un capace seguace di Conan Doyle – ma G. K. Chesterton, a suo avviso, è inafferrabile – e lo intruppa nella più becera narrativa ‘di genere’ insieme ad Arthur Hailey e a James Albert Michener, ora misconosciuti ma all’epoca autori di polpettoni-bestseller (così, Burgess bacchettandone uno, ne piglia altri due nel mazzo). L’articolo, tradotto in parte, è stato pubblicato nel 1983 ed è ora uno dei pezzi forti di The Ink Trade, libro appena stampato da Carcanet che raduna una antologia di articoli editi tra il 1961 e il 1993. Pare che Eco abbia chiesto a Burgess di supervisionare l’adattamento cinematografico del suo libro (oggetto del film di Jean-Jacques Annaud uscito nel 1986, con Sean Connery): lo scrittore declinò l’invito. Va riscoperta, per altro, l’attività di sceneggiatore di Burgess (non del tutto convinto della forma cinematografica che Stanley Kubrick preferì per Arancia meccanica), che non si limita al – bruttino – Gesù di Nazareth di Zeffirelli: la penna di Burgess si scopre in una serie di fiction per la tivù – sovente di argomento storico, su Amundsen, Attila, Ciro il Grande, Freud e… Sherlock Holmes and Doctor Watson, nel 1980 – e nel film televisivo Mosè (1974), diretto da Giancarlo De Bosio, con un cast formidabile, che contava Burt Lancaster, Ingrid Thulin, Mariangela Melato, Michele Placido. In quel contesto, Burgess scrisse la sceneggiatura con Bernardino Zapponi, mitico autore di Fellini (firma, tra l’altro, I clowns, Roma, La città delle donne). Giocando con le allusioni e i miraggi, Fellini amava Burgess, ne elogiava, ricorda Tullio Kezich, “il sapere enciclopedico” tanto che “insieme a lui avrebbe voluto scrivere un film ambientato nell’antica Grecia”. Burgess e Fellini… Il progetto resta nel libro dei sogni, nel regno del sarebbe bello.

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