Il rastrellamento del ghetto di Roma, una vergogna da imprimere nella memoria (perché non accada ancora)

Un ricordo personale. Nei giorni precedenti alla deportazione del 16 ottobre 1943 gli ebrei romani erano stati avvertiti che stava per succedere qualcosa di terribile, ma non vi prestarono attenzione. Perché la violenza umana, spesso, è qualcosa a cui non vogliamo credere

Martedì prossimo l’Italia commemora la deportazione del ghetto di Roma, avvenuta il 16 ottobre del 1943. Alberto Angela ha dedicato un’intera puntata all’argomento, proprio in un momento in cui certi rigurgiti sembrano affacciarsi. Azioni travestite a difesa dei confini nazionali, difesa del cristianesimo, orgoglio nazionale. I migranti accolti e respinti per un’opera di bene a loro fatta; ricacciarli nel proprio paese è giusto, il territorio italiano è così risollevato, il popolo italiano risanato, e via così. Ci dicono di un antico, solo apparentemente edulcorato, fascismo sempre in agguato. Attenzione, occhi aperti, le cose poi sono assai più complesse di quel che paiono.

I fari dell’odio, ad esempio, non sono puntati solo sui migranti ma anche sugli ebrei, neppure si sente il bisogno di scendere in piazza come si faceva nel Sessantotto: oggi i giovani vogliono stare comodi a odiare al caldo, davanti al computer e alla birra. Ragazzi che si accontentano di far gruppo, di spalleggiarsi, di sentirsi al sicuro – nessun posto è sicuro quanto l’inferno del partito preso, città dolente che non riserva sorprese, gironi sempre eguali. Accamparsi attorno a un capro sacrificale è sempre comodo per proiettare il proprio luridume che non si osa ammettere.

La storia del 16 ottobre del ’43, è una storia di odio: l’ho ripercorsa tante volte attraverso i racconti della mia famiglia, il percorso non si esaurisce mai e la voglia di rifarlo risorge in me ogni anno ancora più forte. C’è un interrogativo sul quale ritorno costantemente e che continua a manifestarsi con insistenza anche oggi che so la risposta. Perché la famiglia di mio padre scappò? Loro abitavano in via Arenula 41, mio padre aveva tre anni, e mio nonno, Alberto Della Rocca, faceva il rappresentante di tessuti nel Nord Italia.

Seppe non si sa da chi dell’esistenza di alcuni campi di smistamento, in cui venivano trattenuti gli ebrei, per poi essere caricati su dei convogli verso l’est Europa. Tornato a Roma, non tagliò corto con il pericolo annunciatogli, per stornarlo da sé e mostrarsi impavido, al contrario lo riconobbe come reale. Corse subito in comunità a diffondere l’allarme, ma non si allarmò quasi nessuno, in fondo era una diceria. La diceria si sa durante la guerra è in voga, più forte di ogni realtà e verità, si nutre di fantasie e ossessioni non ha rivali, e la paura poi colora e monta il tutto. Manco a dirlo mio nonno la notte successiva era già su un camion verso l’Abruzzo. Girovagò da un paesino all’altro, non sostava lì più di due giorni, ospite di famiglie di contadini sconosciute, che a rischio della loro vita si facero carico della loro condizione di ebrei perseguitati, aiutandoli. Cinque giorni dopo il 16 ottobre, mio nonno seppe della deportazione anche qui non si da chi e tornò a Roma. Entro subito in contatto con alcuni ebrei nascosti. Che cosa ne è di loro, domandò? Dove sono finiti tutti?

Perché la famiglia di mio padre scappò? Loro abitavano in via Arenula 41, mio padre aveva tre anni, e mio nonno, Alberto Della Rocca, faceva il rappresentante di tessuti nel Nord Italia. Seppe non si sa da chi dell’esistenza di alcuni campi di smistamento, in cui venivano trattenuti gli ebrei. Corse subito in comunità a diffondere l’allarme, ma non si allarmò quasi nessuno

Risposero di non sapere niente, così vanno le cose, potrebbero andare meglio o peggio, potrebbero mutare o restare immobili, aspettiamo prima di dire. Ogni giorno non capiamo cosa accade, e alcuni pensano al peggio, altri non ne tengono minimamente conto, altri sono tristi, altri a imprecano o sospirano, o si danno da fare, altri a cercano dell’altro, qualcosa che aiuti, o che consoli, o che ci distragga, c’impegni, ci salvi.

Anni dopo quando ormai l’accaduto era chiaro mio nonno seppe di quella donna arrivata tutta trafelata da Trastevere, la sera prima della razzia: «Credetemi! Scappate, vi dico! Vi giuro che è la verità! Sulla testa dei miei figli!», così supplicava la donna. Diceva di un carabiniere che aveva incontrato un tedesco con in mano una lista di 200 capi ebrei da portar via, insieme alle famiglie. Celeste, questo il suo nome, era la meno attendibile per annunciare l’incredibile, «se fosse stata una signora e non la poveraccia che è», così dicevano. Ci voleva qualcuno di più autorevole e stimato per andare a dire il non detto, quello che nessuno di loro voleva sentirsi dire. Certo la povera Celeste avrà pensato se fossi capace di un altro modo per dire le cose, un modo migliore, se fossi un’altra e non la poveraccia che sono, avrei assestato un colpaccio ai tedeschi di quelli che restano nella storia, la storia nostra, la storia di ciascuno di noi adesso che ne conosco il destino se mi ascoltassero cambierebbe.

Erano 1023 persone, messe su dei camion e portati a via della Lungara per due giorni. Il convoglio, partirà infatti alle 14.05 di lunedì 18 ottobre per Auschwitz, giungendo al campo alle ore 23.00 del 22 ottobre. Ma i deportati rimasero chiusi nei vagoni sino all’alba[. Un certo Lazzaro Sonnino, era riuscito a fuggire, gettandosi dal convoglio in movimento, all’altezza di Padova

Ma gli ebrei non le prestarono fede, se andarono a letto, Celeste era come Cassandra, la profetessa priva del dono della persuasione. Quel diavolo di Kappler dopo la consegna dei i 50 chilogrammi d’oro, aveva rassicurato tutta la comunità, che l’avrebbe lasciata in pace e la comunità ormai si sentiva al riparo, ma il riparo offerto dai nazisti è come quello dato a un gattino, a cui dopo un mese strappano via gli occhi. All’alba del 16 ottobre, cento SS circondano il Ghetto e iniziano il rastrellamento. I passanti guardano attoniti le SS che portano via tutti: donne, vecchi, bambini, neonati, e continuano a guardare, anche una volta allontanati, imbambolati, turbati, forse alcuni contenti come quei testimoni, quando assistono convinti della giusta esecuzione di un gruppo di condannati.

Erano 1023 persone, messe su dei camion e portati a via della Lungara per due giorni. Il convoglio, partirà infatti alle 14.05 di lunedì 18 ottobre per Auschwitz, giungendo al campo alle ore 23.00 del 22 ottobre. Ma i deportati rimasero chiusi nei vagoni sino all’alba. Un certo Lazzaro Sonnino, era riuscito a fuggire, gettandosi dal convoglio in movimento, all’altezza di Padova. 820 di loro furono immediatamente portati nelle camere a gas. Dei 1023 tornarono in Italia solo 15 uomini e 1 donna.

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