Se Di Maio non fosse così antieuropeo, potrebbe guardarsi intorno e imparare come funzionano le forme di “reddito minimo condizionato”. Le bizzarrie sul modo di spendere i sussidi di disoccupazione possono essere un buon esempio di che cosa succede quando, concettualmente, si scambia una rete di welfare, come quella europea, nata per gestire la disoccupazione, con un intervento contro la povertà. Gli strumenti di welfare che mancano “solo all’Italia e alla Grecia” hanno un senso se assumono la disoccupazione come un fatto delle economie di mercato, costituendo una rete di protezione economica e di riqualificazione. Quando si ragiona sulla povertà si finisce invece, fatalmente, per scadere nel moralismo: ti diamo questi soldi, ma vedi di spenderli in modo giudizioso, eh !
Forse certe bizzarrie non verrebbero in mente, se, invece di partire dalla povertà, si partisse dalle ragioni della disoccupazione. Sembra una distinzione sottile, ma cambia tutto. In termini di logica, è vero che non tutti i disoccupati sono poveri, ma questo non autorizza a concludere che i sussidi sono per i poveri
Mentre le teorie più elaborate del welfare moderno ragionano sullo stigma sociale (vedi ad esempio il basic income di van Parijs), in Italia si pensa all’assistenza ai poveri. Come stanno le cose in Europa? L’Arbeitslosengeld tedesco, il corrispettivo (se ce ne fosse uno) del “reddito di cittadinanza”, significa “soldi per i disoccupati” (Arbeitslos, senza lavoro); quello inglese, Jobseekers allowance, è ancora più preciso, perché si riferisce a chi cerca lavoro.
Non credo che l’uscita di Di Maio sia stata una citazione, ma l’abolizione della miseria era il titolo di un libro di Ernesto Rossi, dedicato al commento del Report di William Beveridge, il padre del welfare moderno e del “reddito minimo condizionato”. Per Ernesto Rossi però, al contrario di quanto sosteneva con ottime ragioni William Beveridge, non bisognava però dare dei soldi, ma dei beni, scarpe, vestiti.
Con rispetto parlando, il grande Ernesto Rossi qui non ha centrato il punto. Tuttavia, la sua tesi potrebbe suggerire una soluzione a portata di mano per il governo gialloverde, una soluzione che metterebbe insieme, di colpo, le esigenze autarchiche e sovraniste. Invece di caricare una carta di soldi, lo stato potrebbe comprare direttamente i beni e poi distribuirli ai poveri.Il lavoro “socialmente utile” è un altro slittamento concettuale, che risulta dal fatto che sfugge il senso di questi strumenti di welfare.
Dove sta il punto? L’Italia non ha abolito la miseria, come da titolo di Ernesto Rossi, ma ha invece rimosso la disoccupazioneLa soluzione sarebbe sovranisticamente perfetta. Lo Stato acquisterebbe solo beni italiani, sicuri (non da Unieuro). Potrebbe anche accettare delle letterine dei desideri dai poveri, e accontentarli: un paio di scarpe (non Birkenstock), vestiti per donna con la lunghezza della gonna morale, colori non troppo sgargianti, niente calze a rete.
Evidentemente è un’assurdità. Non a caso, però, l’idea della crescita economica che c’è dietro questa trovata, non è l’innovazione, la creatività, il valore aggiunto. C’è invece il solito rovesciamento del rapporto mezzi e fini che si vede in giro per l’Italia: le biblioteche che non esistono per i lettori, i ricercatori, ma per gli impiegati; le scuole non esistono per gli studenti, ma per impiegare gli insegnati ecc. Il reddito di cittadinanza, in questo contesto, è uno stipendio per chi è rimasto fuori.Forse certe bizzarrie non verrebbero in mente, se, invece di partire dalla povertà, si partisse dalle ragioni della disoccupazione. Sembra una distinzione sottile, ma cambia tutto. In termini di logica, è vero che non tutti i disoccupati sono poveri, ma questo non autorizza a concludere che i sussidi sono per i poveri. Sono diretti ai poveri, in quanto disoccupati. Forse un esempio può essere più chiaro. Nella terribile Inghilterra neoliberista, una delle condizioni per aver diritto al sussidio è aver risparmi non oltre 16.000 sterline (£16,000 or less in savings) : ecco, allora, che il giovane diciottenne alla ricerca di un lavoro, ha diritto a un sussidio. Ma non per questo deve frequentare gli assistenti sociali. Si iscrive a un centro per l’impiego e alla prima occasione si mette a lavorare. Spero che ci colga l’enorme differenza.
Se in Europa il welfare funziona intorno alla disoccupazione, è perché l’economia di mercato genera ricchezza, ma genere anche disoccupazione. Non serve metterla sul piano filosofico (la giusta compensazione che la collettività dovrebbe riconoscere a chi subisce gli effetti del sistema del quale essa, comunque e complessivamente, beneficia). Mettiamola invece sul pratico, nel mondo anglosassone, dove questi sussidi sono nati: il problema sociale e individuale della disoccupazione viene gestito da una rete di trasferimenti di welfare e da un sistema di centri per l’impiego che facciano incontrare domanda e offerta di lavoro. E questo è particolarmente importante, come si capisce subito, per i giovani, che non sono “poveri”, ma solo giovani.Nel paese dove attecchisce la decrescita felice, non è accettata l’idea stessa del mercato virtuoso, che genera ricchezza
Il lavoro “socialmente utile” è un altro slittamento concettuale, che risulta dal fatto che sfugge il senso di questi strumenti di welfare.
Dove sta il punto? L’Italia non ha abolito la miseria, come da titolo di Ernesto Rossi, ma ha invece rimosso la disoccupazione: la disoccupazione non deve esistere, e conseguentemente non c’è mai stato un welfare della disoccupazione. Lo Stato deve creare lavoro: per l’Italia il welfare è questo. L’idea che l’economia di mercato generi ricchezza, ma che abbia anche la controparte della disoccupazione, non esiste, perché nel paese dove attecchisce la decrescita felice, non è accettata l’idea stessa del mercato virtuoso, che genera ricchezza. Non basta, forse, “sostenere la domanda”, costringendo le persone a comprare beni italici? È la stessa inversione mezzi fini delle biblioteche, delle scuole ecc. Rimossa la disoccupazione dalla coscienza sociale, è restato solo il concetto, elaborato in ambito religioso cattolico, di povertà e assistenza ai poveri.