Come ogni anno ci risiamo. I potenti della terra si riuniscono per proseguire il negoziato sul clima, la COP, nell’impresa di fermare il riscaldamento globale entro i 2°C, con l’ambizione di raggiungere 1,5°C, come raccomandato dall’ultimo report IPCC. Tappeti rossi, badge stampati freschi, cordoni di polizia e il tradizionale cioccolato per il clima, consegnato per dare energia ai delegati, giornalisti e attivisti. Arrivati alla ventiquattresima edizione (COP24), in una location non certo beneaugurante (Katowice, in Slesia, l’ultima regione delle miniere carbonifere europee) è un incontro particolarmente importante, visto che i dati confermano quanto oramai si sa da anni: la situazione clima è grave e noi non ci stiamo curando. Il 2018 è stato uno degli anni più caldi da sempre e la concentrazione media di CO2 ha superato le 410 parti per milione, il valore più alto degli ultimi 800.000 anni.
A Katowice gli stati membri dovranno lavorare per definire le regole di attuazione dell’Accordo di Parigi, firmato nel 2015 per affrontare il cambiamento climatico a livello globale, che entrerà in pieno vigore nel 2020, quando ogni Stato dovrà mettere in azione tutti i meccanismi stabiliti. In particolare serve definire un “Rule Book”, un libro guida per attuare tutti i principi dell’Accordo e allocare le risorse finanziarie per sostenere i paesi meno sviluppati per mitigare le proprie emissioni ed adattarsi al clima già mutato.
E come sempre nei negoziati tutti punteranno i piedi fino all’ultimo per difendere il privilegio di “inquinare ancora un po’”. Niente controllo sulla deforestazione per il Brasile, magari la possibilità di aspettare a chiudere le centrali a carbone per la Germania, un po’ di pazienza sulla finanza climatica per l’Italia, possibilità di aspettare oltre il 2030 a ridurre le emissioni per l’India. “È normale geopolitica, è normale diplomazia”, ci diciamo tra addetti ai lavori. “Va sempre così, poi tutto trova una soluzione”.
Come sempre nei negoziati tutti punteranno i piedi fino all’ultimo per difendere il privilegio di “inquinare ancora un po’”
Questa volta però serve che i governi superino l’empasse e, invece che puntare al minimo comun denominatore, bisogna dimostrare tutta l’ambizione necessaria. Serve coraggio. Servono decisioni importanti, da veri statisti, non da ombre della Storia. Vogliamo un mondo sicuro per noi e i nostri nipoti? Bisogna andare oltre il limite. Bisogna prendere decisioni molto, molto coraggiose e impopolari. Ma i ministri presenti avranno il giusto mandato per agire? I delegati, da sempre valenti combattenti fino alla 25ima ora riusciranno nell’impresa, sostenuta dall’importante Dialogo di Talanoa (un meccanismo di facilitazione negoziale)?
Questa potrebbe essere una COP anche più importante di Parigi. La stampa sta ignorando l’incontro di Katowice. Qua si rischia di avere una legge ma senza i decreti attuativi. In assenza di un libro guida che definisca come meccanismi possano essere applicati c’è il rischio che salti il tavolo sul clima.
Alla base dei disaccordi che dovranno essere appianati perdurano le differenze su un finanziamento equo per l’attuazione delle norme da parte dei paesi in via di sviluppo e la divisione (eterna) tra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo, una spaccatura, nata nel lontano 1992 a Rio de Janeiro, che si pensava che l’Accordo di Parigi avesse appianato. «I paesi in via di sviluppo vogliono certezza sulle risorse economiche, con un sistema di rendicontazione e controllo, ma chiedono di non avere misure quantificabili della mitigazione delle emissioni», continua la fonte. Chi sono questi stati? Indonesia, Arabia Saudita, Brasile, Russia e India, in particolare, ma anche paesi più piccoli come Colombia e Tailandia. Ma vista dall’ottica dei paesi meno sviluppati i “cattivi” sono di chi non ha ancora messo i soldi sul tavolo. Ovvero i paesi industrializzati. 100 miliardi l’anno, tanti ne devono sborsare dal 2020. Non importa se addizionali o divergendo miliardi da cooperazione, con prestiti delle banche di sviluppo o da partnership pubblico-private. L’importante è che ci siano.
Pesa immensamente il non-ruolo dell’America del climanegazionista Donald Trump
Ora però è tempo di superare questa empasse. I soldi per la finanza climatica vanno allocati, con chiarezza, per sostenere i paesi meno sviluppati. Mentre India, Brasile, e altre, nuove, potenze economiche emergenti devono prendersi una reale responsabilità nella decarbonizzazione dell’economia. L’Europa deve fare pressione sul gruppo di Visengrad che gioca a fare melina sugli impegni sul clima. La Russia deve fare la sua parte. Australia, Canada e Giappone devono essere un esempio, come la Nuova Zelanda o il Costa Rica, non un freno.
La diplomazia dei dazi, le pressioni del FMI, la geopolitca del Palazzo di Vetro, gli aiuti bilaterali, le ambasciate: sono questi i meccanismi per accelerare la spinta su coloro che non vogliono prendersi responsabilità. L’EU deve mettere in campo tutta la sua potenza diplomatica, così la Cina, che sembra voler ergersi al nuovo paladino della decarbonizzazione (nonostante l’opposizioni interne a livello locale).
Pesa immensamente il non-ruolo dell’America del climanegazionista Donald Trump. «Abbiamo perso il nostro peso negoziale», spiega una fonte vicina al team USA che preferisce non rivelare la sua identità per diretto coinvolgimento del processo. «Gli Usa sono la bilancia per fare pressione sugli stati alleati (e non), detengono il potere di spesa necessario per raggiungere gli obiettivi richiesti. I negoziatori sono cauti e l’Europa non dà esempio». «L’America che è ancora dentro il negoziato, contrariamente a quanto si dice, ha deciso di tornare ad investire sul carbone, in maniera anacronistica, prendendo una linea negoziale pessima. Però c’è ancora speranza, finchè il negoziato prosegue possiamo farcela», spiega Mariagrazia Midulla, responsabile clima WWF Italia.
Ad oggi, con gli INDC attuali, al 2100 il mondo raggiungerà una temperatura di 3,2°C. Senza sarebbe 3,4°. Noi abbiamo bisogno di raggiungere 1,5°C
«I segnali che arrivano dagli INDC (Intended Nationally Determined Contributions) sono insoddisfacenti», commenta tranchant Hanna Fekete, di Climate Action Tracker, un progetto di reporting sul clima sostenuto da tre enti di ricerca (New Climate, Ecofys, Climate Analytics). «I progressi sono mediocri. Alcuni stati hanno migliorato i propri impegni nazionali, altri hanno addirittura peggiorato i propri impegni». Gli INDCs sono la metrica di progresso dell’accordo di Parigi. Ogni cinque anni gli stati, sono obbligati a redigere obiettivi volontari da raggiungere con ambizione crescente: riduzione delle fonti fossili, efficientamento energetico, mobilità sostenibile, lotta alla deforestazione, adattamento al climate change. «Ad oggi, con gli INDC attuali, al 2100 il mondo raggiungerà una temperatura di 3,2°C. Senza sarebbe 3,4°. Noi abbiamo bisogno di raggiungere 1,5°C» continua Fekete.
Abbiamo visto gli stati insulari, le grandi città, le comunità indigene, persino coalizioni di corporation prendere impegni importanti di decabonizzazione per mostrare l’impegno collettivo, anche quando i governi non ci sono. Eppure i governi sono timidi
Nei giorni scorsi gli studenti delle superiori australiani sono scesi in piazza a protestare contro il governo di Scott Morrison che si rifiuta di adottare politiche a favore della decarbonizzazione dell’economia. Greta Thunberg, quindicenne ha dato inizio ad uno sciopero, ogni venerdì’, dalle lezioni scolastiche, per forzare l’ignavia politica sul clima del governo svedese. «Serve disobbedienza civile, se i governi non agiscono». La speranza è che queste due settimane di negoziato siano fruttuose e facciano progressi significativi. Altrimenti serve davvero una dimostrazione di forza in piazza. Colorata creativa, intelligente, forte, giovane. Anche in Italia, nonostante i divieti del governo giallo-nero. Se non ora quando?