Per quanto possa sembrare banale, in una società come la nostra, in cui il caos sembra prevalere in tutti i contesti e gli ambiti, il rischio di perdersi nel rumore di fondo e in un vorticoso susseguirsi di eventi è più che concreto.
Questo nostro mondo va veloce, gira in fretta e non ci lascia mai il tempo di fermarci a riflettere, a studiare la situazione, a comprendere a fondo prima di agire. Dovremmo farlo ogni volta, ma la gran mole di cose che abbiano da fare prende quasi sempre il sopravvento e ci porta dove vuole, impedendoci di disegnare nella nostra mente la mappa di ciò che stiamo facendo. In troppi casi costruiamo cose senza averle progettate; ci dicono che dobbiamo farle e noi ci sbrighiamo a fare, invece che a pensare. Ma cos’è esattamente che facciamo?
Il lato oscuro della civiltà del fare (in fretta)
Il passaggio dalla società rurale e agricola a quella urbana e industrializzata ha cambiato profondamente il senso del fare. Prima della rivoluzione industriale e dell’era delle macchine, infatti, fare significava prevalentemente mettere mano ad un attrezzo e faticare per molte ore al giorno sui campi o nelle botteghe, per produrre ciò che serviva per vivere. Non si trattava quasi mai di attività particolarmente difficili da svolgere, ma per mettere in pratica quel fare ci volevano competenze, progettazione, dedizione e tanto “olio di gomito”. Fare le cose aveva i suoi tempi, le sue stagioni, i suoi ritmi e i suoi rituali, per lo più lenti e scanditi dal moto della terra attorno al sole. Ci si alzava presto, prima dell’alba, si preparava il lavoro e lo si svolgeva fino al tramonto, portando con sé qualcosa da mangiare e da bere durante la giornata, per arrivare a sera. Niente di più che questo. Era un fare ordinato, ripetitivo, faticoso ma rassicurante; chi lo sapeva fare lo faceva senza troppe storie, prendendosi il tempo che ci voleva, giorno dopo giorno, per una vita intera.