Nel 2001 il settimanale The Economist pubblicava una copertina che recitava: “Why Silvio Berlusconi is unfit to lead Italy” (Perché Silvio Berlusconi non è idoneo a governare l’Italia). Sfogliando le prime pagine, un lungo articolo dal titolo “Una storia italiana”, raccontava perché l’imprenditore non poteva ricoprire la carica di primo ministro. L’8 maggio, cinque giorni prima delle elezioni, nel corso del programma televisivo Porta a Porta, Berlusconi firmava un «contratto con gli italiani» per dimostrare la sua adeguatezza. Una cosa mai vista prima, a certificare che il sistema di voto non era una garanzia sufficiente di per se stessa per la veridicità delle promesse elettorali. Serviva una prova, serviva una pubblica ammissione. Un clima di sfiducia verso il sistema-voto che, tutt’oggi, è forte e presente, in Italia e nelle democrazie mondiali.
Adam Przeworski, teorico della democrazia di fama mondiale e professore ordinario di Scienza della Politica presso il Wilf Family Department of Politics della New York University, pubblica Perché disturbarsi a votare?”(Università Bocconi Editore 2018; 192 pagg.), in un momento storico in cui il crollo dei partiti tradizionali in tutto il mondo fa emergere la necessità di interrogarsi sul valore delle elezioni come metodo per selezionare da chi e come farsi governare.
«Mi piace iniziare citando una frase di Antonio Gramsci – racconta Przeworski a Linkiesta – ‘Il vecchio mondo sta morendo. Quello nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscuro nascono i mostri.’ Ecco, siamo in questo chiaroscuro della democrazia. Nel libro pongo la domanda: dato che abbiamo governi che vengono scelti con elezioni competitive, dobbiamo aspettarci quindi che siano conseguentemente ritenuti responsabili verso coloro che li hanno eletti? Dovremmo aspettarci uno sviluppo economico? Dovremmo aspettarci una riduzione delle disuguaglianze, principale problema delle odierne democrazie? Dovremmo aspettarci che il sistema possa mantenere la pace sociale? Tutte queste domande portano non solo a un tipo di ricerca analitica e teorica ma anche a un tipo di ricerca empirica».
Giustificare le elezioni a partire dall’esito materiale e concreto, ovvero il risultato numerico, per Przeworski è un errore: la scelta che uscirà dalle urne potrà rivelarsi anche non giusta in termini di competenza o rispondenza rappresentativa, ma riflette la fiducia nelle elezioni, quindi nella democrazia
Ricerca empirica che Przeworski compie confrontando Paesi diametralmente opposti tra loro e dimostrando che votare è importante e democratico, le elezioni sono il sistema migliore tra quelli ideati nel corso dei secoli per risolvere i conflitti politici senza negare la libertà. Giustificare le elezioni a partire dall’esito materiale e concreto, ovvero il risultato numerico, per Przeworski è un errore: la scelta che uscirà dalle urne potrà rivelarsi anche non giusta in termini di competenza o rispondenza rappresentativa, ma riflette la fiducia nelle elezioni, e quindi nella democrazia che è rinata nell’età moderna insieme a esse.
«Non c’è niente di “non democratico” nell’elezione di Donald Trump o nella crescita dei partiti anti-establishment in Europa» scrive Przeworski. «I problemi della democrazia contemporanea sono multidisciplinari e sicuramente difficili da affrontare, ma non dipendono dal fatto che ci sono le elezioni. Anzi conta molto meno chi vince un’elezione e molto più che ci siano elezioni, perché grazie ad esse le divisioni ‘ineliminabili’ tra liberi cittadini possano continuare a esistere».
Perchè votare, dunque? Le elezioni, si legge nell’introduzione di Nadia Urbinati, svolgono una sola ma grande funzione: quella di pacificare la società senza reprimere la libertà e soffocare il dissenso. L’insoddisfazione diffusa, tipica dei sistemi politici odierni, per l’esito delle elezioni non è insoddisfazione per il meccanismo elettorale, ma per come viene regolato e utilizzato. Un libro che è sintesi dell’attuale percezione collettiva del metodo con cui alcune società decidono da chi e come saranno governate, e non lascia andare alla arrendevolezza di chi crede che votare sia inutile
Non conta chi vince un’elezione, conta che ci siano elezioni
«Non conta chi vince un’elezione,» conclude Przeworski «conta che ci siano elezioni. Grazie a esse le divisioni e il dissenso, parte integrante di ogni sistema libero, tra cittadini possono continuare a esistere e ad alimentare la democrazia. Sapere che nemmeno la maggioranza demagogica, xenofoba e nazionalista durerà non è solo un sollievo e un pensiero che dobbiamo mantenere sempre costante, ma è anche e soprattutto la ragione che ci fa stare al gioco. Il motivo reale che unisce la società seppur nella sua divisione, il dissenso è il motore e insieme la benzina di quell’ordine politico chiamato democrazia in cui ogni ultima decisione politica è sempre la penultima.»
Tornando al 2001, l’allora Cavaliere citò in giudizio il The Economist. Anni dopo, nel 2017, la Cassazione respinse il ricorso contro la sentenza che aveva assolto il settimanale britannico da qualunque crimine supposto. L’articolo non era diffamatorio, come sostenuto da Berlusconi, e l’autore esercitava il diritto di critica giornalistica.