Win-Win, tutti guadagnano, nessuno perde; un matrimonio alla pari, tutti contenti, le azioni salgono, sindacati e politici sospettosi vengono accontentati con la promessa che non ci saranno licenziamenti. La fusione tra Fca e Renault (con in coda Nissan e Mitsubishi), una operazione da 32,6 miliardi di euro, con vendite combinate di 8,7 milioni di vetture, è stata presentata con acuti squilli di tromba (sarebbe il terzo gruppo mondiale dopo Volkswagen e Toyota) e senza dubbio presenta grandi vantaggi per ciascuno dei protagonisti. In realtà è un grande accordo di natura difensiva, perché l’industria dell’auto è entrata in un’altra delle sue crisi ricorrenti, una crisi non solo congiunturale, ma soprattutto strutturale, con tanto di salto tecnologico e distruzione creativa. Come sempre in queste fasi, l’automotive reagisce con fusioni e acquisizioni, perché questo resta un mondo di giganti dove la taglia (con le conseguenti economie di scala) è fondamentale.
Il futuro si chiama auto elettrica. C’è una domanda forte in Europa e nell’Asia delle metropoli affollate e inquinanti, meno negli immensi spazi degli Stati Uniti, un paese ormai autosufficiente sul piano energetico e dove la benzina costa poco. Il salto tecnologico da fare è quello, ma è anche un salto nel buio che richiede tanti capitali da investire senza la certezza di un ritorno nel breve periodo. Mentre sono già in pista nuovi e inattesi concorrenti, da Google ad Apple per non parlare del maverick Elon Musk. Nel mondo digitale il partner debole è senza dubbio la Fiat Chrysler, Renault e Nissan sono più avanti, le loro vetture elettriche (la Renault Zoe e la Nissan Leaf) sono le più vendute in Europa, la Cinquecento elettrica deve ancora arrivare. La Fca è molto esposta anche in Asia a cominciare dalla Cina nella quale non è riuscita mai a penetrare. Renault è in vantaggio anche grazie all’alleanza ormai ventennale con la Nissan che però oggi scricchiola paurosamente. In compenso la casa francese è debole in America (del Nord più ancora che del sud) quindi la Fca le porterebbe una dote ragguardevole.
Sul piano produttivo e dei modelli ci sono marchi che fanno gola soprattutto in Asia. Il polo del lusso attorno a Maserati e Alfa Romeo, più volte annunciato da Sergio Marchionne, non è mai decollato, adesso potrebbe prendere corpo, anche se sono solo ipotesi e il brand più importante, cioè Ferrari, vive ormai una vita propria. Gli analisti di Mediobanca Securities ritengono il matrimonio un buon affare. Per la casa italo-statunitense i vantaggi si avrebbero dal lato elettrico-ibrido e nell’incremento della penetrazione in Russia e nei mercati dell’area asiatica, per i francesi le note positive arrivano dall’ingresso nei brand premium e nella rete distributiva in Nord America.
Mediobanca securities sottolinea anche “alcuni ostacoli” rappresentati dalla sovrapposizione in termini di capacità produttiva in Europa, dalle eventuali ostilità a livello politico (sia in relazione alla quota detenuta dall’esecutivo francese, sia per quanto riguarda i possibili scenari previsti dalla guerra commerciale) e della possibile contrarietà di Nissan (che detiene il 15% di Renault). Per Jefferies le due società si adattano bene l’una all’altra, ma un operazione di questo genere potrebbe presentare diverse criticità tra le quali la politica, la complementarità molto elevata nei modelli base, nei veicoli leggeri e dal diverso posizionamento geografico. Per Fidentiis si tratta di un’operazione destinata a ridurre il profilo di rischio di FCA in termini di diversificazione geografica e capex anche se la stima di sinergie per 5 miliardi “rappresenta un obiettivo aggressivo”. Equita Sim invita a comprare con prezzo obiettivo a 14,5 euro.
Il fattore politico non va sottovalutato. La presenza dello stato francese in Renault con il 15% è stato subito messo in rilievo dalla Lega. Tra Parigi e Roma oggi non corre buon sangue e il responsabile economico Claudio Borghi affaccia l’ipotesi che il governo italiano debba essere della partita. Come non è chiaro. Comprando un pacchetto di azioni? O mettendo dei bastoni tra le ruote con veti e regolamenti? In ogni caso è un ostacolo che già è stato gettato sul cammino dell’alleanza.
L’altra questione chiave in questa come in altre fusioni è chi comanda. Per molti versi la risposta oggi è più semplice, infatti non ci sono più personalità forti e carismatiche al vertice dei due gruppi. La scomparsa di Sergio Marchionne e i guai giudiziari di Carlos Ghosn, l’artefice dell’accordo con Nissan, rendono possibile cercare un nuovo top manager su basi paritarie. E tuttavia una operazione così vasta e complessa richiede una mano ferma al comando. Le automobili non sono soltanto un insieme di metalli, gomme, plastiche, montate insieme; no, l’industria delle industrie, quella che ha segnato il Novecento, è un colossale aggregato di uomini, intelligenze, passioni, interessi spesso in conflitto. Mettersi alla guida di questo universo fa tremare i polsi.
Il fattore politico non va sottovalutato. La presenza dello stato francese in Renault con il 15% è stato subito messo in rilievo dalla Lega. Tra Parigi e Roma oggi non corre buon sangue e il responsabile economico Claudio Borghi affaccia l’ipotesi che il governo italiano debba essere della partita
Il legittimo interrogativo sulla sorte degli stabilimenti e dei lavoratori italiani al quale fa da pendant la stessa preoccupazione in Francia e, per molti versi, anche in Giappone (tanto che è ancora in forse la partecipazione della Nissan), s’aggiunge alla riflessione sulla struttura del nuovo gruppo e sui suoi azionisti di riferimento. Abbiamo già detto dello stato francese che si è sempre fatto garante degli interessi nazionali. Ma quale ruolo avrà la famiglia Agnelli? Un matrimonio in grande stile è quello che John Elkann ha sempre cercato dopo l’acquisizione per molti versi inattesa della Chrysler. Sergio Marchionne prima ha tentato di prendere la Opel dalla General Motors, poi ha corteggiato la Peugeot che ha scelto i cinesi più il governo francese. Ha discusso con la Volkswagen (dove era in corso una guerra tra gli eredi Porsche) che sembrava interessata soprattutto ad Alfa Romeo e Maserati. Ha dato un’occhiata alla BMW saldamente controllata dalla famiglia Quandt. Infine nel 2015 ha tentato il colpaccio con la General Motors. Marchionne aveva già il sostegno dei fondi d’investimento pronti a fornire 60 miliardi di dollari per lanciare la sfida a Mary Barra la figlia di un operaio diventata numero uno della GM. Ma Warren Buffet, azionista di GM con il 3%, un finanziere del quale John Elkann si fida moltissimo e che all’inizio sembrava favorevole alla operazione, aveva espresso dubbi e riserve che hanno indotto a non rischiare una “impresa disperata”. Ma i radar di Elkann non hanno smesso di girare finché non si sono fermati su Renault.
Anche in questo caso il fattore umano ha un ruolo fondamentale. Con Ghosn saldo al comando probabilmente non si sarebbe fatto nulla. Oggi invece Renault ha bisogno di recuperare slancio e agganciare di nuovo una Nissan in piena deriva nazionalistica, che ha affossato (più o meno giustamente) il gaijin, lo straniero diventato samurai ed è tentata di sganciarsi per cominciare un altro percorso, anche perché da tempo sono loro a fare gli utili (così come è la Jeep nel gruppo Fca). Il matrimonio con Fiat Chrysler e le doti geografiche e produttive che il gruppo italo-americano porterebbe con sé possono convincere i giapponesi che comincia una nuova partita nella quale conviene giocare le proprie carte.
Se l’operazione andrà in porto, gli Agnelli diventeranno azionisti importanti con il 13%, ma non dominanti (il governo francese e Nissan avrebbero il 7% ciascuno) e John Elkann potrebbe portare a compimento in modo positivo il progetto di sganciarsi dalla storia secolare che lega la famiglia all’automobile per proseguire un cammino nella finanza e nella editoria che tanto gli sta a cuore. Senza tradimenti né distacchi forzati. In fondo i Rockefeller hanno fatto lo stesso con il petrolio. È vero, nell’auto è ancora forte la presenza del capitalismo familiare (Porsche-Volkswagen, Peugeot, Quandt-BMW, Toyoda-Toyota, Ford), ma anche in quesi casi le famiglie lasciano spazio ai manager e il modello prevalente tende sempre più ad assomigliare a una public company. Gli Agnelli non fanno eccezione. Oppure no?