Thank you, DongyuDongyu alla FAO? È la Cina che si sta prendendo l’Africa (nell’indifferenza dell’Occidente)

L’elezione del cinese Dongyu, braccio destro di Xi Jinping, a capo della Fao conferma il ruolo crescente della Cina nello scacchiere mondiale. Mentre l’Occidente investe nella cooperazione, la Cina in Africa costruisce strade. Ma non è una buona notizia

Vincenzo PINTO / AFP

L’elezione del cinese Qu Dongyu, ex viceministro dell’Agricoltura di Pechino, a nuovo direttore generale della FAO, l’organizzazione delle Nazioni Unite che si occupa dell’alimentazione e dell’agricoltura, significa solo due cose: occhi puntati sul continente africano e la Belt and Road Initiative, la Via della Seta.

La FAO è la quinta agenzia delle Nazioni Unite a finire sotto la guida della Repubblica popolare (l’Organizzazione internazionale dell’aviazione civile, l’Unione internazionale delle telecomunicazioni, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per lo sviluppo industriale e il Dipartimento per gli affari economici e sociali sono tutti a guida cinese). Il colosso delle Nazioni Unite ha un mandato molto ampio che apre prospettive quantomeno inedite. Ora la Cina ha in mano il fascicolo della fame nel mondo, che colpisce 821 milioni di persone, e la cui eliminazione è uno degli obiettivi principali dell’Agenda 2030. Ma attenzione: non solo. Con la vittoria di Pechino, si apre una partita di interessi geoconomici che si impone anche sull’Unione europea, fresca di elezioni, e sull’avversario statunitense già sul piede di guerra dei dazi.

“Il processo di elezione di Qu Dongyu a direttore generale offre un caso di studio e un campanello d’allarme per l’Europa e per la comunità internazionale – spiega a Linkiesta Alberto Alemanno, professore ordinario di diritto dell’Unione europea alla Scuola di studi superiori commerciali di Parigi e fondatore di The Good Lobby – La candidata francese Geslain-Lanéelle è stata direttore esecutivo per la sicurezza alimentare dell’Efsa e direttore generale per agricoltura, politiche agroalimentari e territoriali del ministero francese delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali. Parliamo di expertise di alto livello. L’Europa, nonostante sia uno dei maggiori contribuenti al budget della FAO, si è dimostrata incapace di sostenere il proprio candidato.”

Partiamo dalle elezioni, quindi. Si è trattata di una vittoria senza esclusione di colpi, a conferma del ruolo di primo piano che la Cina detiene nel panorama geopolitico mondiale. Prevalso sulla candidata francese Catherine Geslain-Lanéelle, votata, tra gli altri, anche dall’Italia, con 108 voti favorevoli già nel primo turno, il nuovo leader dell’istituzione multilaterale durerà per quattro anni, dal 1 ° agosto 2019 al 31 luglio 2023, prendendo il testimone dal brasiliano José Graziano da Silva. “Saremo neutri e imparziali” ha dichiarato Dongyu subito dopo essersi dichiarato “grato alla madrepatria”. Una madrepatria che ha ha sbaragliato tutti gli avversari con una netta maggioranza. Cinque candidati iniziali – tra cui Médi Moungui (Camerun), Davit Kirvalidze (Georgia) e Ramesh Chand (India) – ma solo tre sul finire: oltre a Dongyu, la francese candidata dell’Unione europea Catherine Geslain-Lane’elle (71 voti) e il georgiano sponsorizzato da Washington Davit Kirvalidze (12 voti).

“Saremo neutri e imparziali” ha dichiarato Dongyu subito dopo essersi dichiarato “grato alla madrepatria”

“Le modalità di selezione, però, sono state molto controverse – continua Alemanno – Si parla di episodi di natura corruttiva nei confronti dei paesi africani e sudamericani.”

Non a caso, infatti, fonti dell’Onu spiegano che più di Qu ha vinto “il sistema Cina, un intero Paese spesosi in modo capillare per ciascuno dei 108 voti”. A marzo scorso, Reuters dava notizia del controverso arresto per corruzione dell’ex presidente dell’Interpol Meng Hongwei, poi espulso dal Partito comunista per violazione della disciplina di partito. Stesso mese in cui viene registrato il ritiro del candidato camerunense Médi Moungui in seguito alla cancellazione di oltre 70 milioni di dollari di debiti che Yaoundé avrebbe dovuto pagare a Pechino, a detta di Le Monde. Dongyu era tra i favoriti anche perché vantava il probabile sostegno dei Paesi del cosiddetto G77, tra questi i Paesi latinoamericani come il Brasile, paese che la Cina, secondo fonti diplomatiche citate da Le Monde, avrebbe minacciato con il bando delle esportazioni agricole. Considerando che oggi la Cina è il secondo partner commerciale dei Paesi dell’area dopo gli Stati Uniti e il primo per alcuni di essi, tra cui il Brasile appunto, la più grande economia della regione e patria dell’ormai ex dirigente FAO, il Perù e il Cile, mentre è il secondo partner commerciale per Argentina, Colombia, Uruguay e Venezuela, certi meccanismi non stupiscono.

Da un lato, quindi, l’America Latina. Importante, in ottica cinese, per le sue grandi risorse naturali e agricole (il petrolio in Venezuela, la soia in Argentina e Brasile), di investimento infrastrutturale (i porti: Il colosso cinese Cosco, lo stesso presente al Pireo in Grecia, è presente al porto di Chancay in Perù, mentre la China Merchants possiede il 90 per cento del terminal del porto brasiliano di Paranagua) e per legami commerciali e diplomatici. In breve: Cina 1 – Stati Uniti 0. Almeno per questa partita, che ha scatenato – e con tutta probabilità scatenerà ancora di più – una forte guerra ai dazi.

Dall’altro, c’è il più grande investimento che la Cina sta portando avanti: l’Africa.

Tanto l’Africa quanto il Sudamerica sono due aree strategiche della Nuova via della seta – afferma Alemanno – Ma sull’Africa la Cina ha investito molto. E proprio il territorio africano offrirà il primo terreno d’azione per capire come la nuova guida a trazione cinese affronterà i nuovi equilibri mondiali. È chiaro che si tratta di una proiezione del potere culturale ed economico che la Cina sta avendo nel contesto geopolitico. E desta non poche preoccupazioni.”

Dal 2010 la Cina ha impegnato oltre 100 miliardi di dollari per lo sviluppo di progetti commerciali in Africa

Mentre i paesi occidentali investono nello sviluppo e nella cooperazione, con le ormai note lungaggini burocratiche, la Cina si presenta al continente africano con soluzioni immediate. Costruisce strade, ponti, palazzi, infrastrutture di ogni tipo e ben visibili, utili ai governanti locali per accrescere consenso elettorale. Dal 2010 la Cina ha impegnato oltre 100 miliardi di dollari per lo sviluppo di progetti commerciali in Africa. Durante il vertice 2018 del Forum per la cooperazione tra Cina e Africa (FOCAC), il presidente Xi Jinping aveva annunciato un nuovo fondo comune da 60 miliardi di dollari per lo sviluppo dell’Africa come parte di una serie di nuove misure per rafforzare i legami tra i due continenti. Secondo uno studio condotto dalla China-Africa Research Initiative, la Cina ha prestato un totale di 143 miliardi di dollari a 56 nazioni africane, messi a disposizione principalmente dall’Export-Import Bank of China e dalla China Development Bank. Per capire come funziona basta pensare che, per settore, circa un terzo dei prestiti era destinato a finanziare progetti di trasporto, un quarto all’energia e il 15% destinato all’estrazione di risorse, compresa l’estrazione di idrocarburi. Solo l’1,6% dei prestiti cinesi è stato dedicato ai settori dell’istruzione, della sanità, dell’ambiente, alimentare e umanitario. Le priorità degli investimenti appaiono chiare. Lo scopo pure.

“È chiaro che le relazioni tra Africa e Cina sono tali e talmente strette da poter far valere ogni interesse economico – afferma Mario Raffaelli, presidente di Amref – Si pensi alla Belt and Road Initiative, la Via della Seta, che vede coinvolto il porto di Gibuti.”

La posizione del porto, proprio sullo Stretto di Aden e sul Mar Rosso, lo rende strategico sia dal punto di vista commerciale sia da quello militare. Gibuti, ex colonia francese, ha affittato a diversi Paesi stranieri terreni sui quali sono state costruite basi militari. Ed è anche una porta aperta sui mercati dell’Africa orientale e centrale. Per questo motivo, la Cina ha puntato gli occhi sul Paese e lo ha inserito tra le nazioni strategiche nelle sue politiche commerciali.

L’elezione di Dongyu racconta una politica di penetrazione cinese che va vista con preoccupazione, soprattutto per l’atteggiamento neocolonialista e di mancato rispetto dei diritti umani

“La vera forza della Cina in Africa è stata la capacità di diversificare gli interventi in ogni paese africano coinvolto – continua Raffaelli – Basti pensare che, mettendo insieme Etiopia, Kenya, Tanzania e Gibuti, la Cina in quattro anni ha investito una cifra pari quasi a 24 miliardi di dollari. Alcuni stati africani stanno accumulando ingenti debiti nei confronti di Pechino. L’Europa, in queste candidature ma anche in generale, avrebbe potuto fare molto di più per far valere altri standard, come quelli umanitari. L’elezione di Dongyu racconta una politica di penetrazione cinese che va vista con preoccupazione, soprattutto per l’atteggiamento neocolonialista e di mancato rispetto dei diritti umani, tema al quale la Cina è completamente disinteressata e che l’Africa, invece, soffre molto. Inoltre, la Cina ha avuto un calo di produzione agricolo che fa capire le necessità di mettere proprio il vice Ministro dell’agricoltura a capo dell’agenzia delle Nazioni Unite con uno dei mandati più ampi su queste tematiche. È un asset essenziale, che conferma il ruolo crescente della Cina nel panorama globale.”

Secondo uno studio del Fondo Monetario Internazionale risalente ad aprile 2018, a partire dalla fine del 2017, circa il 40% dei paesi dell’Africa subsahariana a basso reddito sono ora in difficoltà di indebitamento o valutati come ad alto rischio di difficoltà di indebitamento, tra cui l’Etiopia, la Repubblica del Congo e Zambia. E secondo un rapporto pubblicato a marzo dal Centro per lo sviluppo globale, proprio Gibuti è destinato ad assumere debiti pubblici pari a circa l’88% del Pil totale del paese, di 1,72 miliardi di dollari, con la Cina che ne detiene la maggior parte.

Per Macron e Trump è tempo di risvegli amari, a quanto pare. E non solo per loro. Gli scenari per i prossimi anni a guida cinese appaiono con dinamiche complesse. Certo è che la poltrona alla FAO (11 mila 500 impiegati in giro per il mondo e un budget – 2018/2019 – pari a 2,6 miliardi di dollari) segna una vittoria importante per la Cina, a discapito politico di Europa e Stati Uniti, e non solo per la lotta alla fame. Se è vero che le politiche di Xi Jinping, di cui Dongyu è braccio destro, hanno avuto successo nel campo commerciale negli ultimi anni, tanto più è vero che la Cina non è il primo nome che viene in mente quando si pensa alla lotta per sradicare la povertà, diritto umano per eccellenza. Il ringraziamento alla “madrepatria” di Dongyu potrebbe essere la chiave per capire i prossimi sviluppi. Un po’ meno la rassicurazione di essere “neutri e imparziali”.

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