Nei giorni scorsi, sono stati pubblicati gli esiti di una inchiesta giornalistica su un incontro fra autorità italiane e libiche per il contenimento delle partenze dei migranti dalla Libia. In particolare, si è fatto luce sul coinvolgimento di una persona accusata dall’ONU “d’essere un signore della guerra tra i principali boss del traffico di esseri umani”. Si tratta di profili circa i quali ci si aspetterebbero chiarimenti esaustivi da parte del ministero dell’Interno, ma può dubitarsi che tali chiarimenti arriveranno (al momento, il Viminale si è limitato a “smentirsi da solo” con “inesattezze e omissioni”). E le ragioni potrebbero essere le stesse in base a cui, non molto tempo fa, il medesimo ministero ha opposto un rifiuto a chi – con un’istanza di accesso ai sensi del Foia, cosiddetto decreto Trasparenza – chiedeva lumi circa le azioni realizzate dal governo italiano a seguito dell’intesa con quello libico. Tale rifiuto è stato giudicato fondato dal Tar del Lazio (n. 08892/2018) e dal Consiglio di Stato: dunque l’opacità è legittima. La vicenda potrebbe chiudersi qui, dato che sulla richiesta di trasparenza è calata la pietra tombale dell’ultimo grado di giudizio Ma vale la pena di svolgere alcune considerazioni, come sempre, quando al cittadino non è dato sapere ciò che chiede.
Il Foia ha riconosciuto a “chiunque” il diritto alla conoscenza di dati e documenti in possesso delle pubbliche amministrazioni, per qualunque fine e senza necessità di motivazioni
Innanzitutto, una premessa. Il Foia ha riconosciuto a “chiunque” il diritto alla conoscenza di dati e documenti in possesso delle pubbliche amministrazioni, per qualunque fine e senza necessità di motivazioni. Ma il diritto alla conoscenza trova numerose eccezioni sancite dalla legge.
Mediante il ricorso ad alcune di tali eccezioni è stato giustificato il diniego di accesso nei riguardi di un soggetto che, nel gennaio 2018, aveva richiesto alla Direzione Centrale dell’Immigrazione del ministero dell’Interno di conoscere lo stato di attuazione del Memorandum d’Intesa Italia – Libia sottoscritto nel febbraio 2017. Il Memorandum “prevede l’assunzione di obblighi reciproci nell’ambito della gestione dei flussi migratori” e impegna i due Stati “a cooperare nella predisposizione di campi di accoglienza temporanei in Libia” per i “migranti clandestini”. Il diniego di accesso è stato giustificato con il fatto che la piena trasparenza avrebbe comportato un pregiudizio concreto a interessi tutelati dalla legge: “sicurezza pubblica”, “ordine pubblico” e “relazioni internazionali”. In particolare, relativamente “alle attività implementate dalla Direzione Centrale con gli organi esecutivi libici, le riunioni, i contenuti dei verbali, le mail scambiate costituiscono informazioni inerenti servizi operativi di contrasto all’immigrazione clandestina, sottratte all’accesso pubblico generalizzato”. Peraltro, in attuazione del Memorandum, le autorità italiane avrebbero “proceduto solo alla costituzione del Comitato misto italo-libico” e ad alcune attività “di natura essenzialmente tecnico operativa in materia di controllo delle frontiere e di contrasto all’immigrazione illegale”, quali “rimessa in efficienza di motovedette; traino; fornitura pezzi di ricambio; attività di formazione”.
Il Tar ha definito “stucchevole” indicare le ragioni dell’accordo tra Italia e Libia, un giudizio subito confermato dal Consiglio di Stato, che ha parlato di “fatto notorio”. Ecco, questi passaggi, se pur corretti, lasciano un senso di amarezza: perché di “stucchevole” o “notorio” c’è poco o niente.
Nonostante una serie di rilievi avanzati da chi chiedeva trasparenza – ad esempio, la conoscenza di alcune delle attività implementate, quali “l’intervento umanitario, il miglioramento delle condizioni di accoglienza, la formazione del personale e delle forze dell’ordine libiche ecc.” non determinerebbe alcun danno a interessi tutelati dalla legge – sulle azioni concordate tra Italia e Libia è calata la cortina del “segreto”, come detto. Ma alcuni passaggi delle due sentenze citate meritano attenzione. Il Tar ha affermato che “pare addirittura stucchevole indicare” le ragioni per cui la trasparenza “dei verbali di riunione del Comitato misto Italia-Libia, istituito ai sensi del più volte citato Memorandum, nonché di atti che documentano lo svolgimento di attività (…) finalizzate al contrasto alla immigrazione clandestina” può recare “grave e concreto pregiudizio alla stabilità delle relazioni internazionali in atto” tra Italia e Libia, nonché a ordine e sicurezza pubblica. E il Consiglio di Stato ha giustificato l’espressione usata dal Tar – “stucchevole” – in quanto solo “formalmente brusca e non rispettosa dell’obbligo di motivazione”, dato che le ragioni del rifiuto della trasparenza appaiono, “agevolmente comprensibili e difficilmente confutabili, se solo si tiene conto del difficile contesto territoriale ed istituzionale in cui l’azione di contrasto dell’immigrazione clandestina è destinata ad operare (ed al riguardo, alla luce della cronaca degli ultimi anni, può invocarsi addirittura il fatto notorio)”. Ecco, questi passaggi, se pur corretti, lasciano un senso di amarezza: perché di “stucchevole” o “notorio”, circa la questione degli accordi con la Libia, c’è poco o niente.
Da tempo fonti autorevoli sostengono “la connessione tra la condotta italiana, consistente nella fornitura di assistenza tecnica e finanziaria alle autorità libiche, e le gravi violazioni dei diritti umani che si consumerebbero in Libia”, sì che “una responsabilità indiretta dell’Italia su tali illeciti appare difficilmente contestabile”: ma il cittadino non dispone di strumenti per conoscere e capire cosa sia accaduto e cosa accada ancora. La trasparenza è necessaria perché è “importante che l’opinione pubblica sia informata sulla reale portata degli accordi intercorsi tra il Governo italiano e le autorità di Tripoli”, così che “nessuno potrà dire, domani, non sapevo”. Eppure non è dato sapere.
Con il Foia l’ordinamento ha messo a disposizione del cittadino uno strumento per fare trasparenza. Ma, al momento, non può che farsi affidamento sul buon giornalismo.