ReportageLa piccola India di Singapore, dove i problemi della grande India sono vietati

Nato per alloggiare i servitori dei britannici nell’800, il quartiere è un luogo ordinato, colorato e di pace, dove vivono insieme indù e musulmani. Ma tutto ciò ha un prezzo, soprattutto per le tante regole e per le telecamere dappertutto

Nel mercato di Little India Arcade, tra incensi e pashmine, espongono statue in legno di Ganesh con una zanna spezzata: si dice che tra le altre cose simboleggi l’imperfezione. Se è imperfetto un dio, come potrebbe mai essere perfetto l’uomo? Con una lungimirante politica sociale e urbanistica, massicce dosi di tecnologie e big data, autoritarismo q.b.. Ed ecco che questo quartiere, in una città-stato asiatica con un Pil pro capite tra i più alti del mondo e una disoccupazione al 3%, è una piccola India che ha risolto i problemi della grande India (problemi che in buona parte corrispondono a quelli italiani). Inquinamento, corruzione, intolleranza, delinquenza. Se le emissioni indiane sono ormai famigerate, qui si susseguono le colonnine per la ricarica elettrica delle auto, che in tutta Singapore sono appena un milione su quasi sei di abitanti. Se il Kashmir pare ancora sul punto di esplodere e nei decenni scorsi non sono mancate tensioni etniche neppure in questo “Little Red Dot” del Sud-est asiatico, oggi nel suo quartiere indiano vivono in pace indù e mussulmani. Naturalmente, come ogni conquista umana – e forse divina – tutto ciò ha un prezzo.

Gli indiani residenti, tra sikh e tamil, sono il 7% della popolazione nazionale. Durante i giorni infrasettimanali i marciapiedi sono liberi: niente calca, nessuno che mendichi. Little India è nata per alloggiare i servitori dei britannici, che fondarono la colonia di Singapore nel 1819, ma il suo nome attuale fu istituzionalizzato solo negli anni ’80 del ‘900. Qui i primi indiani accudivano il bestiame nelle stalle e nelle scuderie, e garantivano un servizio di lavanderia sui corsi d’acqua chiamato in hindi Dhoby Ghaut. In Buffalo Road si tenevano corse in groppa ai bovini. Oggi il quartiere si sviluppa attorno a Serangoon Road, due chilometri a senso unico.

Quattro passi per le traverse ad angolo retto e si raggiunge l’Arcade. Deepak, 32, ha raccolto nel proprio villaggio nel Tamil Nadu una colletta e una lista: ora compra i prodotti che occorrono alla sua gente, soprattutto trapunte e piumoni, e se ne ritorna a casa. Terry, 61 anni, nato qui da genitori di Calcutta, confeziona vestiti su misura e dice che non si è mai sognato di ricongiungersi alla terra degli avi: «Se in India sbagli strada ti accoppano e buttano il tuo corpo in un treno merci» assicura. Sull’avambraccio, sopra alla scritta incisa nella carne “Peace No War”, mostra il tatuaggio di una donna cinese. «Ho servito due anni lo stato in marina, mi sento singaporiano quanto i miei vicini di casa originari del Sichuan».

Niente mozziconi per terra: si fuma soltanto negli angoli preposti, spesso frequentati da un cinese malandato e roco che sembra pagato come figurante per disincentivare i viziosi

Fuori dal mercato, per le vie tessono i sari. Nei drugstore pendono file colorate di shampoo monodose. Sotto i porticati con i soffitti in legno e le colonne in muratura, costruiti originariamente dai britannici per ripararsi da pioggia e sole, si sorseggia il lassi, bevanda a base di yogurt, attorno ai tavolini dei caffè. I bar di chapati si alternano ai rivenditori di oro. A volte quell’oro finisce nel monte dei pegni, tra le poche attività del quartiere rimaste in mano ai cinesi, dove si fa ancora di conto col pallottoliere. Fuori dal tempio induista Sri Veeramakaliamman, dedicato a Kali e sormontato dall’adiacente Hilton, i fedeli compongono ghirlande di fiori da offrire agli dei. Sembrerebbe l’India. Eppure per aria non ronzano mosche né altro insettame: soltanto api a caccia di polline. Per evitare botellón, dal 2015 gli spazi pubblici sono alcohol free zone tra il venerdì sera e il lunedì mattina. I campi da cricket con l’erba all’inglese si aprono tra grattacieli in vetrocemento. Le folate di spezie e frutti tropicali esposti sui banchi non si mescolano a quelle di smog e rifiuti. Si allungano file di toilette pubbliche blu – gratuite e profumate di disinfettante – e di ristoranti delle varie regioni indiane. Dallo storico vegetariano Komala Vilas, aperto nel 1947, al più avventuroso Apolo, dove servono teste di pesce su foglie di banano. Molti espongono la certificazione “halal”, tutti la A o la B dell’ufficio igiene: con la C si chiude baracca. Niente mozziconi per terra: si fuma soltanto negli angoli preposti, spesso frequentati da un cinese malandato e roco che sembra pagato come figurante per disincentivare i viziosi. Oggi le uniche mucche appartengono alla specie dei murales, ovviamente autorizzati. Gli elefanti, che pascolano in un prato e che subiscono i giochi dei figli di una donna in abaya, sono di plastica. Pare un parco tematico a tema “India”, con tanto di hotel a 5 stelle per i visitatori, il One Farrer, un’India de-indianizzata.

La raccolta differenziata è praticata con disciplina religiosa. Nelle case popolari, l’80% sul totale delle abitazioni, l’immondizia viene lasciata cadere in una botola sotto il lavandino e finisce in un deposito collettivo svuotato due volte al dì. Le telecamere sbucano al di sopra delle proboscidi di Ganesh, tra le ghirlande di fiori, sorvegliano vicoli e graffiti, aiuole e panchine. Ormai molti ragazzi vogliono fare i finanzieri, spiegano qui, in pochi i poliziotti: ne basta uno, davanti a una costellazione di monitor in qualche ufficio nascosto, per controllare simultaneamente decine di scorci e di strade.

C’è da immaginare che, per lo più, quel poliziotto sbadigli. Lee Kwan Yew, padre della Singapore moderna e dell’attuale primo ministro Lee Hsien Loong, decretò (oltre che un’integrazione forzata dopo gli scontri tra cinesi e malesi degli anni ’60) la pena di morte per lo spaccio di droga e per ogni singolo colpo di arma da fuoco. Non è raro sentirsi dire, pure a Little India, «devi leggere la sua biografia, ti dà tutte le ispirazioni di cui hai bisogno nella vita». Tra gli altri adagi, in quel libro del 1997 si legge questo: «Qui nessuno ha dubbi sul fatto che se qualcuno mi attacca, io prenderò un tirapugni e lo chiuderò all’angolo. Se invece pensi di potermi fare più male di quanto possa fartene io, provaci. Non c’è altro modo di governare una società cinese».

Il brillante senso del marketing locale ha trasformato perfino i divieti in attrattiva turistica: vendono t-shirt marchiate da nove divieti in file da tre. Ci si può passare il tempo a caccia dei cartelli che espongono le figure più impensabili barrate in un cerchio rosso

Così prendi un taxi a Little India. La corsa è breve, sei dollari singaporiani. Tu ne dai 10 all’autista, e ne aggiungi uno per avere indietro una banconota da cinque bella intera. Il tassista osserva quella da 10, ti dà indietro quattro dollari, poi osserva l’altro dollaro, rimastogli nel palmo sinistro, e infine, confuso, te la restituisce. Perché?, chiedi, confuso a tua volta. «A scuola mi hanno insegnato onestà e correttezza: se il prezzo è sei e tu mi dai dieci, io ti ridò quattro». No, niente pensiero laterale made in Italy.

Il Mustafa centre, nato in un sottoscala come negozio di abbigliamento di Mustaq Ahmad e famiglia, oggi sale di tre piani e scende di quattro, vende elettrodomestici e manghi, pesce fresco e penne di lusso, sedie e a rotelle e collant, posti letto e anni di vita: comprende già una guest house e a breve comprenderà un ospedale privato all’avanguardia. Il motto dell’attività è: se in città trovi lo stesso prodotto a un prezzo inferiore, ti rimborsiamo il doppio della differenza. Le calcolatrici sulle teche di vetro luccicanti di oro sono legate al banco da cordicelle di iuta. All’uscita, il cartonato di un poliziotto a grandezza naturale, in posa da Chuck Norris ma con gli occhi a mandorla, recita: “Il taccheggio è un crimine”. Poco oltre, un cartellone elettronico segnala gli arresti mensili per il crimine in questione: ora siamo a 102.

Il brillante senso del marketing locale ha trasformato perfino i divieti in attrattiva turistica: vendono t-shirt marchiate da nove divieti in file da tre. Ci si può passare il tempo a caccia dei cartelli che espongono le figure più impensabili barrate in un cerchio rosso. Due omini stilizzati si baciano sotto un cuore: niente effusioni. Uno sciacquone: 150 dollari se non tiri la catena del water. Uccellini e sementi: non si dà il mangime ai pennuti. Un uomo con l’inconfondibile getto dall’inguine: 500 dollari per chi la fa negli ascensori, che fino a poco tempo fa erano rivestiti da un mastice reattivo all’ammoniaca – sirene e blocco delle porte. Niente clacson, niente sgommate, niente pedoni che attraversano fuori dalle strisce tra semafori verdi: se passa di lì un agente ti scatta una foto probante e ti rifila una multa.

Tutto fila liscio. Gli esseri umani non sono poi ‘ste brutte bestie, se gli impedisci di comportarsi da brutte bestie. Una visita a Little India permette di scoprire svariate bellezze dell’India, senza scoprirne i problemi. E, forse, permette pure di soppesare un possibile futuro distopico dell’umanità.

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