Principi illiberaliIl vincolo di mandato non tutela i cittadini ma la casta grillina (ed è incostituzionale)

I Cinque stelle non credono nella democrazia rappresentativa e vogliono deputati dipendenti, ma è proprio il loro verticismo a convincere molti parlamentari ad allontanarsene, non il trasformismo

Vincolo di mandato contro i trasformisti e gli opportunisti in Parlamento? Da qualche anno, periodicamente questo argomento viene gettato nell’agone politico, talvolta per provocazione, diventando oggetto di dibattito. Non sempre supportato da analisi approfondite. ITALIASTATODIDIRITTO ha voluto indicare alla politica qualche spunto di riflessione. Lo abbiamo fatto in un convegno, nel quale, fra gli altri, Sabino Cassese ha spiegato come e perché nasce il divieto di mandato imperativo.

Come nasce il divieto di mandato imperativo?

Compare per la prima volta nella Costituzione della Francia rivoluzionaria del 1795 (la Costituzione del Termidoro con cui si chiude il periodo del Terrore): «i membri del corpo legislativo .. sono rappresentanti … di tutta la nazione e non può essere loro dato mandato alcuno».

Lo Statuto Albertino del 1848 recita, con norma che giungerà quasi testuale nell’art. 67 della Costituzione repubblicana: «i deputati rappresentano la nazione in generale … Nessun mandato imperativo può loro darsi dagli elettori».

Per la Costituzione di Weimar «i deputati rappresentano il popolo … non dipendono che dalla loro coscienza e non sono vincolati da alcun mandato».

Prima della sua codificazione fu Edmund Burke, con il discorso agli elettori di Bristol nel 1774, a spiegare che «il Parlamento non è un congresso di ambasciatori di opposti e ostili interessi che ciascuno deve tutelare come agente o avvocato; il Parlamento è assemblea deliberante di una nazione, con un solo interesse, quello dell’intero, dove non dovrebbero essere di guida interessi e pregiudizi locali, ma il bene generale».

E’ dunque da 250 anni che nelle democrazie rappresentative i parlamentari, ancorché “rappresentanti” degli elettori, sono dai loro stessi elettori “svincolati”.

Il punto è che rappresentanza ha due diversi significati, a seconda che il termine sia usato in senso privatistico o pubblicistico (in tedesco esistono infatti due diverse espressioni: vertretung e representation).

L’uso del termine “democrazia rappresentativa” o assemblea di “rappresentanti” non identifica affatto un corpo di persone incaricate da altri – come nella rappresentanza privatistica – di eseguire un mandato loro affidato.

In realtà la rappresentanza pubblicistica, come spiega Vittorio Emanuele Orlando nel 1889, è solo una designazione di capacità, è l’indicazione di persone capaci, solo questo e null’altro

In realtà la rappresentanza pubblicistica, come spiega Vittorio Emanuele Orlando nel 1889, è solo una designazione di capacità, è l’indicazione di persone capaci, solo questo e null’altro.

Affinché i capaci possano decidere per il meglio nell’interesse dell’intera collettività è indispensabile che ne sia assicurata la piena libertà, sia dagli elettori che dai partiti.

L’inesistenza di alcun “mandato” è del resto dimostrata dall’impossibilità di individuare i mandanti (visto che il voto è segreto), dall’impossibilità di identificare l’oggetto del mandato (che non è scritto da nessuna parte), e dalla inesistenza di una vera e propria “elezione” del presunto mandatario (che è in realtà designato dalle forze politiche, che ne propongono la approvazione agli elettori, collocandolo nella lista elettorale).

Ma è vero trasformismo?

Il M5S sostiene di voler introdurre forme di vincolo di mandato per i parlamentari «per contrastare il sempre crescente fenomeno del trasformismo» (così recitava il c.d. “contratto di governo” sottoscritto con la Lega) ma non sembra che le cose stiano proprio così.

È vero che il M5S ha subito – più di alcuni partiti (ma meno di altri, come FI per esempio) – un fenomeno significativo di abbandono dei propri parlamentari (dal marzo 2018 a settembre 2019 il M5S ha perso 6 deputati e 4 senatori, la scorsa legislatura aveva perso 18 senatori e 21 deputati).

Tuttavia le dichiarazioni degli interessati mostrano che il fenomeno sembra essere naturale conseguenza della natura fortemente verticista del M5S: la mancanza di meccanismi democratici di funzionamento e di assunzione delle decisioni genera frustrazione e insofferenza nei parlamentari, che sembrano spinti ad andarsene non solo in dissenso dalla linea politica del Movimento ma anche a causa della mancanza di riconoscimento di autonomia e di libertà di azione.

Si ricorderà l’iniziale divieto di comparire sui media per i parlamentari, la ferrea disciplina di sottomissione alla Casaleggio & Ass., la sottomissione al voto on line degli iscritti di talune importanti decisioni in sede parlamentare

Si ricorderà l’iniziale divieto di comparire sui media per i parlamentari, la ferrea disciplina di sottomissione alla Casaleggio e Associati., la sottomissione al voto on line degli iscritti di talune importanti decisioni in sede parlamentare (come il voto sulla richiesta di autorizzazione a procedere contro il Ministro dell’Interno Matteo Salvini da parte del Tribunale dei Ministri sul caso della nave Diciotti), e i regolamenti parlamentari che prevedono l’espulsione in caso di mancato rispetto delle decisioni assunte con le votazioni in rete o dagli organi del M5S, o di condotte che ne vìolino la linea politica, espulsione cui si aggiunge la minaccia di sanzione di 100.000 € che può essere comminata anche in caso di dimissioni volontarie determinate da dissenso politico.

Quei regolamenti, come riconosciuto da molti Tribunali civili, istituendo un mandato imperativo tra il Movimento e i suoi parlamentari sono incostituzionali e, come tali, inapplicabili, ragione per la quale il M5S non si è mai spinto a irrogare la cospicua sanzione economica temendo che i giudici l’avrebbero annullata.

Dunque, almeno con specifico riferimento al M5S, non sembra vero che «occorre introdurre forme di vincolo di mandato per contrastare il fenomeno del trasformismo»: ma appare vero piuttosto il contrario.

E cioè che l’abbandono dei gruppi del M5S da parte di numerosi parlamentari sembra dovuto proprio al dovere (incostituzionale) di obbedienza che quel partito impone loro.

Ma è poi lecito etichettare come “trasformista” chi lascia un partito che sanziona il dissenso politico con l’espulsione?

Trasformista è il governo che si assicura la maggioranza comprando, con favori e clientele, il voto dei parlamentari più spregiudicati: cosa c’entra il trasformismo con chi decide di allontanarsi da un partito autoritario e illiberale, per di più quando la sua decisione non sembra dettata da ragioni d’interesse personale, ma da sincero convincimento?

Basterebbero un incremento del tasso di democraticità interno al partito e ai gruppi, tolleranza verso il dissenso e un po’ di buon senso nella selezione e formazione delle liste elettorali (oggi affidata a insondabili e opachi riti digitali on line) per riportare anche nel M5S il c.d. “trasformismo” a soglie fisiologiche.

Dunque se davvero si vuole limitare la migrazione dei parlamentari da un gruppo all’altro non occorre affatto aggredirne l’antica e necessaria libertà costituzionale di pensiero e di azione, ma occorre semmai costringere i partiti di matrice autoritaria a “concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale” nel rispetto dell’art. 49 della Costituzione.

[1] Le informazioni storiche che seguono sono state illustrate da Sabino Cassese in un recente convegno organizzato da ITALIASTATODIDIRITTO su “Partiti digitali e vincolo di mandato” https://www.radioradicale.it/scheda/587506/partiti-digitali-e-vincolo-di-mandato

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