Tutti li danno per morti. Luigi Di Maio e pure il Movimento. Niente di più lontano dalla realtà. La conferenza stampa di mercoledì disegna una precisa road map. Ecco il passaggio che plasmerà i tempi futuri della legislatura: «Dobbiamo essere l’ago della bilancia», ha chiarito Di Maio. E dietro questa semplice e banale frase in politichese c’è lo scenario che andiamo a raccontarvi.
I Cinque Stelle erano nati per spaccare il bipolarismo e invece in quella frase rieccheggia la politica dei due forni di andreottiana memoria. E già che ci siamo con gli amarcord pare che anche la lezione di Bettino Craxi che con il 12% dei voti lucrava un dividendo politico assai più consistente sia stata assimilata dalle parti del Movimento. Vecchi tempi, ma la storia insegna. E il “ragazzo” Di Maio ha studiato.
«Altro che nuovo inizio – dice a Linkiesta un senatore Cinque Stelle che preferisce restare anonimo – mercoledì non c’è stata autocritica, ma l’enunciazione di una dottrina, quella di un ceto politico che è pronto a tutto pur di mantenersi al potere».
Di Maio sembra aver adottato la tattica casaleggiana, quella di comandare rimanendo nell’ombra per poi al momento giusto tirare le briglie. E l’avvento di Vito Crimi fa dormire sonni tranquilli – detto senza ironia.
Il senatore siculo-bresciano è da sempre di casa nelle stanze milanesi dove è nato il Movimento e con Di Maio ha un rapporto solidissimo. Fu uno dei suoi primi sponsor con Casaleggio senior che Di Maio nemmeno conosceva; con lui sfidò il Fondatore nella prima partita sulle nomine del membro laico al Csm in quota Cinque Stelle. Fu la prima volta che la fronda parlamentare la spuntò su Casaleggio.
Gli stati generali di marzo quindi saranno nel segno di Di Maio: torna Capo politico o no? Il massimo della perfidia sarebbe trovare un “prestanome”, un nuovo capo politico che obbedisca ciecamente ai due fondatori. Vedremo.
Tanti si chiedono che senso ha dimettersi a pochi giorni dalle elezioni in Emilia-Romagna e Calabria. Ma è una visione strabica. Le dimissioni – finte, simulate – arrivano nello stesso giorno in cui si compie la metamorfosi del Movimento in Partito con l’ultimo passaggio, quello delle nomine dei “facilitatori regionali”, ossia delle strutture periferiche dopo la nomina della segreteria nazionale avvenuta il 15 dicembre. Era la ristrutturazione che Di Maio aspettava per edificare la sua catena di comando. Ai suoi ordini e a quelli di Casaleggio: i due cofondatori hanno stretto la morsa.
Non avrebbe avuto senso mollare prima di aver messo in piedi il partito ad immagine e somiglianza di se stesso e di Davide. Ecco la risposta alla domanda che tanti si sono fatti: perché Di Maio assommava incarichi di governo a cui si aggiungeva la leadership del partito? Perché doveva plasmare “la creatura” e blindare la scalata con Davide, metterla a riparo da qualsiasi tipo di concorrenza.
Dopo l’opera di edificazione verrà quella della individuazione dei “nemici interni”. Il modello è, ancora, quello di Casaleggio senior: aziendale e alla Gengis Khan. Nei momenti di crisi i problemi si licenziano con le persone che li creano. La fiammata del 33% non poteva che portare nuove complessità, ingovernabili in un partito le cui gerarchie si stabiliscono su basi di fedeltà personali. Ci saranno anzi altre fuoriuscite ma le perdite di altri parlamentari rafforzeranno la mission: un partito – l’ennesimo – autoritario e leaderistico. Molti si chiedono cosa succederà al Senato, dove i numeri ballano, e il Governo rischia. Risposta semplice, nulla. Perché chi è andato con la Lega lo ha già fatto e nella pattuglia ex-grillina finita nel gruppo misto la Lega è appetibile come un maiale per un musulmano e non voterà mai per far cadere il governo. Insomma, è un arma scarica.
E poi c’è il pontiere Federico D’Incà, ministro per Rapporti con il Parlamento, abile nel cercare e trovare i voti che dovessero mancare. Un alpino leale e devoto, che pur non amando Di Maio è fedele al suo mandato.
Insomma, siamo messi così: che in questo momento il miglior alleato di Di Maio è Nicola Zingaretti. Frasi affettuose e abbracci sui social e quel patto di ferro in due punti che è parte della forza del titolare della Farnesina. Il primo è sul futuro inquilino del Quirinale, il secondo è sulla legge elettorale. Sarà proprio il proporzionale la ridotta che consentirà al Di Maio “craxiano” di inverare la trasformazione del Movimento anti-sistema in “ago della bilancia”, ovvero mani libere. La trincea è quella del 10% utile a saldare da una posizione di forza la strategia di avere un partito piccolo, composto da fedelissimi, e pronto ad imporre la sua agenda a chi ci vuole stare. Il primo step di questa scommessa saranno le elezioni emiliano-romagnole. La sconfitta di Salvini, possibile e probabile, aiuterebbe non poco la realizzazione del piano. Insomma, altro che morti.