Assediati da cinghiali e gabbiani per le vie di Roma, inebriati dalle fragranze del suino emiliano e con le piazze infestate da animali ancor meno nobili (al servizio di Soros), ci eravamo completamente dimenticati della Pantera: non quella della polizia, ma la belva collettiva che nella primavera del 1990 ruggiva nelle aule universitarie scaldando i cuori degli ex-sessantottini in abito di Caraceni, seduti al timone dei giornaloni borghesi. A rinfrescarci la memoria a trent’anni di distanza provvede ora l’Università di Roma la Sapienza, con un solenne convegno di studi che si tiene oggi con il sostegno dell’Institut d’Histoire Moderne et Contemporaine (ENS-CNRS-Paris 1), della Fondazione Gramsci, dell’Università di Catania e dell’IRSIFAR, che sta per Istituto romano per la storia d’Italia dal fascismo alla resistenza: la resistenza nel 1990? In quell’anno fatidico sono successe tante cose che meriterebbero di essere ricordate, per esempio lo scoppio della guerra del Golfo, i mondiali di calcio in Italia, la morte di Pertini e Tognazzi, la nascita di Balotelli e la riunificazione delle due Germanie.
Ma niente, per i professori della Sapienza è più memorabile la Pantera. Forse perché molti di loro, da studenti, sono passati di lì. La Pantera, si legge nell’invito, “ha una posizione peculiare nella storia dell’Italia repubblicana: ultimo movimento studentesco di massa…fu anche il primo movimento post-ideologico, occasione di contaminazione tra culture politiche diverse e di ripoliticizzazione (sic) di segmenti non trascurabili della popolazione studentesca estranea alla militanza, già all’epoca ampiamente in crisi”.
Quel movimento, è bene precisarlo, nacque per protesta contro la riforma universitaria firmata dall’allora ministro Antonio Ruberti. Un ministro socialista, forse anche piuttosto craxiano. Il suo progetto che per la prima volta tentava di svecchiare il nostro sistema di studi superiori per avvicinarlo ai modelli europei e americani, introducendo l’autonomia degli atenei e degli istituti di ricerca e aprendo il varco ai finanziamenti privati (orrore!) fu tenacemente avversato dal Pci (allora si chiamava ancora così) di Achille Occhetto e dal nocciolo più retrivo dell’accademia. E gli studenti si allinearono prontamente.
Ruberti diventò la bestia nera dei cortei, un vampiro deciso a svendere i templi del sapere alle multinazionali. Eppure la lista dei suoi meriti è molto lunga. Intanto, è stato il primo ministro per l’università e la ricerca dotato di un portafoglio (prima di lui, era solo un ramo secondario della pubblica istruzione). E poi, come leggiamo nel Dizionario biografico Treccani, “realizzò la riforma degli ordinamenti didattici, approvata nel novembre del 1990, che articolava i titoli rilasciati dalle università nelle tipologie di diploma, laurea, specializzazione e dottorato; nel novembre del 1991 riformò il diritto allo studio, introducendo le borse di studio, i prestiti d’onore, il tutorato e l’orientamento; definì il quadro di riferimento della programmazione universitaria e promosse l’istituzione del Politecnico di Bari, della Seconda Università degli studi di Napoli (oggi Università degli studi della Campania Luigi Vanvitelli) e della Università degli studi Roma Tre; riordinò le carriere negli enti di ricerca pubblici; istituì l’Agenzia spaziale italiana e riformò l’Ente nazionale energia e ambiente; istituì i parchi scientifici e lanciò la settimana della cultura scientifica”. E soprattutto “si impegnò per incrementare i fondi pubblici destinati alla ricerca, portandoli dall’1,1% all’1,3% del prodotto interno lordo nazionale”.
Un massimo storico mai più superato. Perché quello era un ministro che invece di piagnucolare per la scarsità dei fondi si batteva per ottenerne di più. Ma non basta, prosegue la Treccani: “Quale commissario europeo (1992-94), Ruberti si adoperò per trasformare la semplice cooperazione tra i Paesi europei in un più stretto coordinamento delle politiche di ricerca e di formazione; lanciò il quarto programma quadro per la ricerca e lo sviluppo tecnologico; istituì i programmi Socrates e Leonardo, di scambio e mobilità nell’istruzione e nella formazione; avviò il riconoscimento dei titoli di studio a livello europeo; realizzò numerosi accordi internazionali nei settori di sua competenza”.
Ruberti è morto il 4 settembre del 2000, giusto vent’anni fa: un’ottima occasione per rievocarlo degnamente. Magari proprio all’università di Roma, di cui fu rettore per più di un decennio e dove ricoprì a lungo, prima di entrare in politica, la cattedra di Controlli automatici e di Teoria dei Sistemi, materie in genere poco frequentate da politici e giornalisti e di sicuro disprezzate in quanto troppo “tecniche” dal declinista Fioramonti. Macché, al ventennale di Ruberti si preferisce il trentennale dei suoi contestatori.
Siamo un curioso paese, che invece di commemorare i riformisti e i pionieri dell’innovazione, onora quelli che li hanno sabotati. Un po’ come se, al posto di Adriano Olivetti, celebrassimo gli industriali (erano tanti) che gli facevano la guerra. A quando un gruppo di studio europeo sulla genesi dei Vaffa Days e dei forconi (nel ’21 cade il decennale) o magari un bel workshop sui Novax o i negazionisti della Xylella? E perché no, un seminario sui benemeriti movimenti dei taxisti e dei madonnari romani? Da decenni l’Italia non fa che passi indietro nei settori di punta, dalla chimica all’informatica alle biotecnologie. Abbiamo tre smartphone a testa, ma poche teste in grado di inventarne di nuovi. In compenso siamo bravissimi a generare movimenti. Ci agitiamo in continuazione, per lo più senza costrutto o per le ragioni sbagliate. Somigliamo al colibrì di Sandro Veronesi, che sbatte velocissimo le ali per rimanere fermo. Se l’indice di movimentismo rientrasse tra i parametri delle classifiche internazionali, il nostro sistema scolastico e universitario si piazzerebbe ai primi posti, a livelli scandinavi o coreani. Dato che purtroppo non è così, sono costretto a declinare il gentile invito dell’Istituto Gramsci: resto a Milano, dove a differenza di Roma le cose si muovono con o senza movimenti. Per la cronaca: l’odiata riforma Ruberti non vide mai la luce, ma la Pantera si estinse in pochi mesi. Riposi in pace. Lunga vita alle Sardine.