Uscirà l’11 febbraio San Giovanni Paolo Magno, il libro-intervista tra Papa Francesco e il giovane sacerdote aquilano Luigi Maria Epicoco, dedicato alla vita e alla spiritualità di Wojtyła a 100 anni dalla nascita a Wadowice (18 maggio 1920).
Edito dalla San Paolo in 127 pagine, il volume (di cui è già in corso la traduzione in polacco, francese, spagnolo, portoghese, inglese) raccoglie parte delle conversazioni familiari intercorse tra il presbitero e il pontefice argentino da giugno 2019 a gennio 2020. Un’ampia riflessione che, attraverso le parole di Francesco, va a riscrivere la distorta narrazione vulgata del suo rapporto col predecessore, da lui canonizzato il 27 aprile 2014.
Ne viene fuori un Wojtyła spesso oleografico, quasi da santino, non in realtà nelle parole dell’intervistato ma in quelle palesemente ammirate dell’intervistatore, che del papa polacco ricostruisce vita e magistero nelle lunghe parti introduttive alle singole conversazioni ripartite in cinque capitoli.
Resta invece completamente sullo sfondo la figura di Benedetto XVI, menzionato da Francesco appena cinque volte. Sarà forse un caso ma San Paolo Magno uscirà proprio l’11 febbraio, giorno di festa nazionale al di là del Tevere (si festeggia l’anniversario della stipula dei Patti Lateranensi, che sancirono la creazione dello Stato della Città del Vaticano). Ma anche giorno in cui, sette anni fa, Benedetto XVI annunciò al mondo le sue dimissioni da pontefice.
Ma, in ogni caso, Francesco nelle poche volte che ne parla lo fa sempre con affettuosa deferenza come quando, raccontando del conclave del 2005, afferma: «La verità è che il Papa giusto in quel momento era Ratzinger. Io ne ero convinto e l’ho sostenuto» (p. 21).
Benedetto XVI, ad esempio, è menzionato insieme con Giovanni Paolo II in riferimento a un tema esplosivo come quello del celibato ecclesiastico. Francesco sembra lasciarsi alle spalle la querelle del libro a doppia firma Benedetto XVI-Robert Sarah, che ha segnato la fine certa di Gänswein da prefetto della Casa pontificia, quando afferma perentoriamente: «Sono convinto che il celibato sia un dono, una grazia e, camminando nel solco di Paolo VI e poi di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, io sento con forza il dovere di pensare al celibato come a una grazia decisiva che caratterizza la Chiesa Cattolica latina. Lo ripeto: è una grazia, non un limite» (p. 75). Parole, queste, che saranno comunque pienamente valutabili quando il 12 febbraio sarà pubblicata l’Esortazione apostolica post-sinodale Querida Amazonía.
Un no netto, invece, in piena linea col magistero di Giovanni Paolo II, è quello che Francesco esprime circa l’accesso delle donne al sacerdozio. Al di là dei richiami alla figura di Maria, di cui sono ribaditi «ruolo e dignità superiore a quella degli apostoli» (p. 94) sulla scorta dell’enciclica woytiliana Redemptoris Mater e la cui lezione è esemplare per ogni donna, le sue parole sono inequivocabili: «Molto spesso, quando mi viene posta la questione del sacerdozio femminile, io dico che non soltanto sono d’accordo con Giovanni Paolo II, ma che la questione non è più in discussione, perché il pronunciamento di Giovanni Paolo II è stato definitivo»(p. 93).
Il filo mariano è quello che sembra ulteriormente legare Wojtyła e Bergoglio a livello di posizioni magisteriali e devozione personale. Ma rispetto al Papa del Totus Tuus quello della Compagnia di Gesù appare molto circospetto, come ha già dato prove numerose volte, in tema di apparizioni. Dice così a chiare lettere: «Ci sono messaggi e messaggi. Fatima, Lourdes sono, ad esempio, esperienze di altissima spiritualità con cui la Chiesa si è trovata a dover fare i conti» (p. 100). Parla, senza menzionarle (ma si tratta sicuramente delle mariofanie San Nicolás e Alta Gracia), di «due casi abbastanza importanti» (p. 101) in Argentina, per poi rispondere elusivamente su Međugorje: «Al di là di quello che potrà essere il giudizio definitivo della Chiesa su quest’esperienza di Medjugorje, il fatto pastorale è un fenomeno così grande che non può rimanere indifferente alla cura della Chiesa» (p. 102).
Una delle risposte, invece, che è destinata a far ampiamente discutere è quella sulla gender theory, che, sdoganata a livello ufficiale proprio da Wojtyła, è stata ripetutamente affrontata da Francesco in maniera più consistente, rispetto ai predecessori, a livello tanto numerico quanto contenutistico. Nonostante si tratti di una delle principali teorie complottistiche contemporanee, la cui elaborazione si deve all’opusdeiana Dale O’Leary nel 1997 e la cui persistente diffusione può paragonarsi (fatte le debite distinzioni) con le antiche tesi del complotto giansenistico, gesuitico, massonico, plutogiudaico.
Bergoglio, che nel libro non ha fatto che riprendere concetti già espressi altre volte, soprattutto il 3 ottobre 2016, sembra non rendersi conto come non esista nessuna gender theory a differenza dei gender studies, che sono ben altra cosa, e come quella che lui chiama ossessivamente colonizzazione ideologica sia ben lungi dall’effettivamente esistere.
Eccone di seguito le sue parole così come compaiono alle pagine 103-105:
«In ogni epoca storica il male si è manifestato in diverse maniere. Secondo Lei, in questo momento storico qual è la modalità più specifica attraverso cui il male si fa presente e agisce?
Una di queste è la teoria del Gender. Voglio però subito precisare che dicendo questo non mi sto riferendo a coloro che hanno un orientamento omosessuale. Il Catechismo della Chiesa Cattolica ci invita anzi ad accompagnare e a prenderci cura pastorale di questi fratelli e di queste sorelle. Il mio riferimento è più ampio e riguarda una pericolosa radice culturale. Essa si propone implicitamente di voler distruggere alla radice quel progetto creaturale che Dio ha voluto per ciascuno di noi: la diversità, la distinzione. Far diventare tutto omogeneo, neutrale. È l’attacco alla differenza, alla creatività di Dio, all’uomo e la donna. Se io dico in maniera chiara questa cosa, non è per discriminare qualcuno, ma semplicemente per mettere in guardia tutti dalla tentazione di cadere in quello che è stato il progetto folle degli abitanti di Babele: annullare le diversità per cercare in questo annullamento un’unica lingua, un’unica forma, un unico popolo. Questa apparente uniformità li ha portati all’autodistruzione perché è un progetto ideologico che non tiene conto della realtà, della vera diversità delle persone, dell’unicità di ognuno, della differenza di ognuno. Non è l’annullamento della differenza che ci renderà più vicini, ma è l’accoglienza dell’altro nella sua differenza, nella scoperta della ricchezza nella differenza.
È la fecondità presente nella differenza che fa di noi degli esseri umani a immagine e somiglianza di Dio, ma soprattutto capaci di accogliere l’altro per ciò che è e non per ciò in cui lo vogliamo trasformare. Il cristianesimo ha sempre dato priorità al fatto più che alle idee. Nel Gender si vede come un’idea vuole imporsi sulla realtà e questo in maniera subdola. Vuole minare alle basi l’umanità in tutti gli ambiti e in tutte le declinazioni educative possibili, e sta diventando un’imposizione culturale che più che nascere dal basso è imposta dall’alto da alcuni Stati stessi come unica strada culturale possibile a cui adeguarsi».