L’industria metalmeccanica lombarda non accenna a riprendersi e si prepara a mostrare il fianco al Coronavirus, pronto a spezzare la catena globale del valore lungo la quale si snodano le imprese italiane e, in particolare, lombarde. Secondo l’Osservatorio della Fim Cisl Lombardia, infatti, il 2019 si è chiuso con un incremento del 79% dei metalmeccanici interessati da ammortizzatori sociali: si parla di 17.288 tute blu, divise in 392 aziende. Il peggior risultato dal 2016, anno in cui registrammo l’ultimo picco di crisi, che ci impone una riflessione seria e che getta ombre sulla tenuta economica, produttiva e sociale della nostra regione. Se grippa (si blocca, ndr) uno dei quattro motori d’Europa rischia, infatti, di restare appiedato il Paese intero dal momento che qui risiede il 18,6% del manifatturiero nazionale, il 21,4% degli addetti totali e il 27,3% dei 465,3 miliardi di euro di export nazionale, nel 2018. Il solo settore metalmeccanico lombardo raccoglie più di 400.000 addetti e 68 miliardi di euro di export.
La Lombardia, in definitiva, pesa un quinto del pil nazionale. Bastano questi dati per capire che non c’è più tempo per tentennamenti e improvvisazioni ma occorre intervenire presto anche perché, su questa drammatica congiuntura, incombe lo spettro del coronavirus che sembra aver ipotecato il futuro del nostro tessuto industriale. Nella prima settimana di emergenza abbiamo contato circa 6.000 metalmeccanici lombardi coinvolti da fermi della produzione e riduzione d’orario a causa del virus. La maggior parte, ovviamente, sono dipendenti di imprese della “zona rossa”, ma sono fortemente interessate anche le aree industriali di Bergamo, Milano e Cremona.
I rischi sono altissimi perché il prolungato fermo delle produzioni potrebbe comportare la perdita di quote di mercato e la ritirata dei clienti mettendo a rischio la sopravvivenza stessa delle imprese. In questa fase, va dato atto a Cgil Cisl e Uil, tanto a livello regionale, quanto a livello nazionale, di essersi subito attivate, in modo coordinato e capillare, per fronteggiare questa crisi inedita e contenere, il più possibile, il panico che trova terreno fertile in un paese innamorato delle fake news. Occorre certamente, per prima cosa, mettere in sicurezza la salute dei cittadini e scongiurare il propagarsi del virus e poi costruire risposte uniformi e condivise, ripristinando strumenti di tutela salariale e sociale, come ad esempio la cassa integrazione in deroga, che hanno già dimostrato di funzionare, tenendo a galla il paese negli anni in cui la crisi picchiava. Ma sappiamo già che non basterà.
Dovremo attendere ancora qualche mese per fare un bilancio attendibile degli effetti che il Coronavirus avrà sull’occupazione e sul manifatturiero ma i primi segnali sono allarmanti. Sicuramente la catena globale del valore, in cui le imprese italiane, e lombarde in particolare, sono ben inserite, rischierà di spezzarsi con forti ripercussioni sulla tenuta industriale. Se considerassimo la somma degli elementi e il ciclo logistico che compongono produzioni complesse, come quelle che interessano le nostre imprese, possiamo tranquillamente affermare che queste tipologie di prodotto, prima di vedere definitivamente la luce, facciano due o tre volte il giro del mondo. Un’immagine che rende molto bene l’idea della complessità dei cicli produttivi, della lunghezza delle catene del valore e delle forniture e del livello di interconnessione globale tra le imprese, lasciando quindi intravvedere le conseguenze che potrebbero nascere in un contesto fatto già di blocco delle industrie e del pil cinesi e diffusione del Covid-19.
La Germania è legata all’economia cinese e, dunque, l’eco della frenata di Pechino si sentirà anche a Berlino per poi propagarsi fino a Roma trasformandosi in un cortocircuito per le industrie metalmeccaniche lombarde specializzate nella realizzazione di semilavorati da “spedire” in Germania, nella costruzione di macchine utensili e nella filiera automotive che produce il 40% della componentistica montata sulle auto tedesche. Germania e Italia hanno un mercato parallelo e integrato e quando cala la produzione tedesca ne risente anche quella italiana in termini di contrazioni produttive, riduzione della visibilità degli ordinativi, problemi occupazionali e aggravi, ancora una volta, per la produttività. Ma non solo. La quarantena industriale e commerciale della Cina significa la ritirata del 17% del pil mondiale e, quindi, le ripercussioni saranno globali.
Il blocco della provincia di Hubei, hub della componentistica mondiale, sta frenando la catena globale delle forniture, lasciando le industrie mondiali al palo e causando problemi di approvvigionamento per le imprese dell’ICT e il rinvio del lancio di nuovi prodotti tecnologici con il conseguente stallo delle produzioni. Inoltre, la serrata cinese si sta traducendo anche nel blocco delle attività cosiddette back end, ovvero le fasi finali della catena globale del lavoro dove si scaricano le produzioni occidentali per le lavorazioni di assemblaggio e di basso valore aggiunto. Come se non bastasse, anche la logistica mostra grosse difficoltà complicando la vita delle imprese tanto nelle spedizioni quanto nella ricezione di prodotti e materiali.
Dopo la Banca Mondiale, ora anche Moody’s azzarda previsioni di recessione mondiale, mentre il Governo americano rivede al rialzo le probabilità che il virus sbarchi negli Stati Uniti. Al di là dei numeri, quel che è certo è che più il contagio si allargherà, più l’epidemia si trasformerà in pandemia e più aumenteranno i rischi di entrare in una grande recessione, a maggior ragione se l’economia è già debilitata. Per quanto riguarda l’Italia, alcuni analisti prevedono perdite di alcuni punti percentuali tali non solo da azzerare le già scarse stime di crescita ma da trascinare la crescita sotto lo zero, riportando le lancette al 2008 con tutto quel che ne consegue. Uno scenario da brividi che abbiamo, tutti, il dovere di contrastare e scongiurare.
È il momento in cui occorre unire emergenza e progettazione perché quel che arriverà rischia di essere un altro tsunami pronto a scagliarsi sulle nostre ambizioni di poter restare agganciati all’industria di qualità, ben inserita nei network globali, che punta sull’innovazione, sulla partecipazione e sulle produzioni intelligenti, a cui corrispondono salari migliori, valorizzazione del capitale umano e ambienti di lavoro sicuri e confortevoli. Questa non è un’opzione ma è la strada obbligata che dobbiamo imboccare perché, viceversa, saremmo condannati a scivolare verso un modello di industria fondato sulla riduzione dei costi, in contrazione occupazionale e salariale, dove precarietà e gerarchie rigide e vecchie sono la norma, un’industria che farebbe arretrare tutto il sistema paese.
In questa fase, a maggior ragione, si devono sostenere le imprese agevolando l’accesso al credito, evitando, quindi, di appesantire ulteriormente la loro situazione economico finanziaria che rischierebbe di soffocare occupazione e prospettive produttive. Inoltre, una maggior certezza delle norme e delle leggi, oltre alla semplificazione della burocrazia, consentirebbero di migliorare la nostra capacità di attrarre investimenti esteri che, oggi, sono pari al 20,5% del pil contro una media Ocse del 40,3%. A tal proposito, una gestione meno sensazionalistica dell’emergenza del Coronavirus, probabilmente, avrebbe aiutato a contenere il danno di immagine e il calo di fiducia verso il nostro Paese che equivalgono a danni economici difficili da recuperare. Servirebbe, poi, accorciare i ritardi in tecnologia e innovazione che sono direttamente proporzionali ai “cervelli in fuga”.
I gravi ritardi dell’Italia sulle infrastrutture digitali devono essere colmati velocemente per prepararsi a una sfida in cui la capacità di avere leadership sul digitale coinciderà anche con il benessere industriale. Per questo le nostre imprese hanno bisogno di essere sostenute sui mercati esteri da una politica autorevole e preparata, in grado di gestire, con capacità progettuale, le transizioni all’interno dei tre cambiamenti epocali che stiamo vivendo: tecnologico, ambientale e demografico. Nella legge di bilancio questa visione di insieme e di futuro ha lasciato spazio a piccole iniziative spot. Il piano Industria 4.0, nel 2016, ha avuto il merito di rimettere l’industria al centro dell’agenda politica, facendo ripartire gli investimenti, svecchiando e modernizzando gli impianti produttivi che nel 2016 avevano, secondo i dati Ucimu, un’anzianità media di 13 anni e creando migliaia di posti di lavoro. È apprezzabile che il Governo abbia ripreso quel percorso che oggi prende il nome di Impresa 4.0 anche se preoccupa il fatto che le risorse siano contenute e che il meccanismo del credito di imposta, a giudizio delle imprese, non sia automatico come prima. Per facilitare e programmare gli investimenti, tuttavia servono orizzonti più ampi, di almeno tre anni.
Formazione, capitale umano, partecipazione e contrattazione aziendale sono dunque vere e proprie operazioni di politica industriale a costo zero, con effetto moltiplicativo senza eguali. Su queste direttrici sarebbe facile incentivare la crescita dimensionale delle imprese dando così a tutte la possibilità di dotarsi di disponibilità economiche e intellettuali per una struttura organizzativa all’altezza delle sfide dell’industria 4.0, raggiungere mercati lontani e inserirsi, meglio, nella catena globale del valore e in supply chain più lunghe con benefici sia in termini di competitività che di occupazione.
Il Covid-19 ci ha dimostrato che i problemi di un singolo paese, in questo caso il virus, possono mettere in difficoltà la catena globale del valore, con danni diffusi e difficili da contenere. Ancora una volta le tecnologie possono venirci in soccorso per aiutarci a costruire la certificazione di tutte le fasi del processo lungo, appunto, la catena globale del valore, realizzando dei veri e propri lasciapassare per chiunque voglia partecipare alla filiera, accettando queste regole. Gli anelli della catena globale del valore che non avranno queste certificazioni saranno tagliati fuori. Questo ci consentirebbe di conquistare sovranità industriale e di recuperare il gap di cui la Cina ha potuto beneficiare approfittando, ad esempio, di normative sociali e ambientali meno vincolanti. Una filiera certificata in questo modo, a maggior ragione con produzioni ad alto contenuto tecnologico, consentirebbe di spostare verso l’Europa il baricentro della catena globale del valore, candidando il nostro continente ad avere un ruolo di contrappeso economico e politico al potere di Stati Uniti e Cina, con benefici diffusi anche per il nostro Paese.