Maestro, tra i più grandi, dell’oscurità. Vale per lo stile pittorico, funziona anche per la biografia. Di Georges de La Tour, tra i massimi esponenti del barocco francese secentesco, si sa poco. Giusto l’anno di nascita, il 1593, a Vic-sur-Seille, in Lorena. E che nel 1620 – ormai vive a Lunéville – ottiene di non pagare le imposte grazie alla nobiltà della moglie, Diane Le Nerf. Sfiorato dalla burocrazia, riappare fugace in documenti ufficiali (proteste, compravendite, contratti, cause) e in una lettera autografa del 1636, dove non si parla di arte, ma di successioni. C’è solo una descrizione, fatta da un vicino: sarebbe stato un uomo arrogante, avido e odioso.
È sicuro che abbia vissuto a Parigi, apprezzato da re Luigi XIII. Molto meno sicuro che sia stato anche in Italia: mancano le prove documentali, anche se lo stile pittorico sembra suggerirlo. Nonostante gli studi, sempre più copiosi dalla seconda metà del 900, i misteri permangono. Anzi, aumentano. Per la professoressa Francesca Cappelletti, storia dell’arte e curatrice della mostra a Palazzo Reale “Georges de La Tour. L’Europa della luce” (la prma in Italia su di lui) il pittore è «un meteorite». Una figura «inspiegabile nel contesto della pittura barocca del ’600». Un enigma.
Cosa lo rende speciale? Le sue 16 opere esposte a Palazzo Reale, messe a confronto con altrettanti quadri di suoi contemporanei, rispondono da sole. Al di là delle influenze – caravaggesche, certo. E, fin dove si può, di Paulus Bor, o Gherardo delle Notti – i “diurni” e i “notturni” disposti lungo un percorso tematico consegnano un Georges de La Tour che «si accanisce sul soggetto di genere, supera l’idea di “pittore della realtà” per far trionfare lo stile», spiega a Linkiesta Cappelletti. In questo senso, «i soggetti, cioè le persone reali, sono precisi. Ma è un altro l’obiettivo: esplorare le possibilità espressive dello stile». La sua è un’arte dei lumi, studi anche aspri dei bagliori, dei riflessi del fuoco, delle fiamme stesse, avvolti dal buio.
Il risultato è la metafisica Maddalena penitente, ritratto di donna meditativa allo specchio. E il livido Suonatore di ghironda con cane. E l’Educazione della Vergine, dove la luce scivola sulle superfici, lambisce i vestiti e li suggerisce morbidi. Lui è «Maestro della varietà», suggerisce Cappelletti e – aggiungiamo noi – autore di esperimenti che somigliano a esiti addirittura novecenteschi. È il meteorite che, per dirla con il celebre critico Roberto Longhi, «prende le distanze da Caravaggio, ma usando un linguaggio caravaggesco che non è per niente servile».
Del resto, come l’artista bergamasco, anche de La Tour fu riscoperto nel XX secolo. Un cammino cominciato con un articolo del 1915 di Hermann Voss che associa il suo nome, fino a quel momento senza opere, ad alcuni dipinti. Ne nasce un movimento critico sempre più intenso. Il museo parigino compra il primo quadro di de La Tour nel 1926, l’Adorazione dei Pastori. Il pittore comparirà in una mostra dodici anni dopo, sul Seicento. Da lì è solo ascesa: nel 1938 il ministero della Cultura francese suggerisce di collocare un suo dipinto nella copertina dei manuali di storia dell’arte dei licei francesi. Nel 1972 arriva la prima esposizione di carattere monografico. E a distanza di 25 anni, sempre a Parigi, quella della consacrazione.
Come è noto, in Italia non sono custodite opere di de La Tour. Per arrivare alla mostra Palazzo Reale, spiegano, ci sono voluti 12 anni di ricerche, con trattative e incontri con le istituzioni museali di tutto il mondo: ben 26, si sottolinea. Un’impresa che sottolinea, per radici, influenze e distribuzione, l’importanza crescente del museo milanese. E anche quanto l’opera di de La Tour, dall’oscurità delle province lorenese, sia venuta a simboleggiare, appunto, ”l’Europa della luce”.