MonologrammiL’amore ai tempi dell’epidemia tendente al pandemonio

La rubrica neopassatista e veterofuturista di Pasquale Panella

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Non so perché mi viene in mente questo: l’amore al tempo dell’amore, quando non ci fu altro tempo, quando noi ci segregammo, come se intorno a noi ci fosse una epidemia tendente al pandemonio, e noi la fuggissimo amandoci, noi due, lei e io.

Soltanto noi, noi soli, soli in due. L’amore come atto assai privato, privato del mondo, finalmente. L’amore che nel mondo serve a nulla se non a fare brutte figure, figure retoriche intendo, e poesiole da ridere. Dà più soddisfazione una robusta avversione, franca, smagliante come questi colonnati di denti che ultimamente si vedono in giro, queste Acropoli in bocca, di aggressivo candore, e queste pettinature da ogiva tornita a testa di razzo. Ma male utilizzate: le dentature per sorrisi amari e lividi con sibili tra i denti sempre serrati, le pettinature come uniche sfumature di pensiero tagliato corto sopra teste ottuse.

Amor un paio di palle, due palle da reclusione, due belle bocce con catene, amore, fino al bracciale intorno alla tua splendida caviglia e alla mia, facendo noi molto affidamento in questo, all’amor due palle che ci tratteneva, con molto piacer nostro d’esser trattenuti. Si sa, amarsi fortissimamente induce a due ambizioni: morir d’amore insieme o essere insieme carcerati (questa è magnifica).

Buttate pure la chiave (toglietevela finalmente questa soddisfazione, toglietela veramente a voi la soddisfazione di non esser noi se vi soddisfa), e lasciateci marcire come fiori (toglietevi anche questa ossia togliete dal vaso improprio della vostra testa i fiori). L’isola deserta se non per due sole forme di vita (le nostre forme, la tua bellissima, e la mia che tenta il calco della tua abbracciandoti) mi pare un po’ troppo faticosa ossia turistica. Murati vivi è già molto più intimo.

Insomma mi va, non so perché, la mente al tempo del nostro fortunato avvenimento quando l’amore ci recluse. E come lo zerbino il mondo restò fuori. Di che vivemmo? D’arte, ovviamente, ovvero di denaro, inviando via fax (i tempi erano altri tempi), quasi da sotto il bordo di una porta, le nostre paginette a generosi soggetti editoriali dai pagamenti buoni e puntuali. Così risolviamo la questione: se i personaggi dei racconti e dei romanzi lavorano e quando. Lavorano a parole e con le parole, ecco fatto: che facciano altri lavori meramente umani è un inganno per chi legge. Passavamo per inviati nella vita ma ci inventammo tutto.

Qualche volta uscivamo allo scoperto come assegni senza alcuna riscossione altrui, come i pirati quando vanno in mare a prendersi il dovuto che è scritto sull’acqua. Uscivamo per rubare il tempo, per portarlo a casa, stenderlo sul letto come il prossimo lenzuolo da sgualcire, insomma – scusate la banale commozione – per devastarlo come il vento l’erba, che però fioriva anche sconquassata, e fruttava e maturava, e noi schiacciavamo con i nostri corpi i frutti come per una vendemmia, come per una marmellata. Cos’è, organizzavamo addirittura una dispensa per la nostra segregazione?

Dispensa, sì, era questa la parola che dipanava i nostri molteplici grovigli nei suoi molteplici significati, che diventavano i nostri, dal momento che noi non ne avevamo per non volerne avere. La dispensa: il dispensare, la distribuzione di noi stessi a noi, il luogo dei viveri del vivere, lo spaccio di tu e io, noi deposito delle provviste alimentari, e noi provviste da mangiarci e berci, e mobili nei quali esse sono contenute, sempre noi, noi coi nostri movimenti d’ante, di coperchi sollevati di madie, e poi calati giù più o meno lentamente o lasciati andare come un crollo, di cassetti estratti e spinti, di sportelli anche sbattuti come cosce e ventri; la tavola apparecchiata con sopra noi commestibili appena dopo i pasti… anche dispense come fascicoli periodici da collezionare (ah, fosse possibile!), da rilegare (questo fu possibile, sì ci legammo e ci rilegammo per riaprirci come pagine legate, le pagine accoglienti, il segnalibro immerso, sì questo accadde, sì)… dispense come atti amministrativi permissivi, sì atti certamente, e sì ci amministrammo assai, permissivi molto, atti in deroga sì, che ci esentavano, perché il piacere libera dagli obblighi… dispense a doppio senso (e questo fu fenomenale): ci dispensammo totalmente a noi e allo stesso tempo ci dispensavamo da ogni altro atto, da attività che non fossero nostre, tipo niente cene con amiche e amici, niente cinema e teatri perditempo, niente visite e relative chiacchiere così ripetitive (fatta la prima, le hai parlate tutte)… insomma, scatenammo la parola dispensa in tutti i sensi, i nostri.

E finalmente poi l’abbattimento dell’asfissiante memoria collettiva e dell’irrespirabile, e pure collettivo, immaginario. No, non immaginammo, e solo noi ricordiamo, e questo che qui è scritto è scritto in due, è scritto da due soltanto, non dall’uno molteplice né dai soliti tutti che scrivono tutti i libri.

Quanto durò? Un bel po’, un bel poco forse, però durò, come pure è un lampo breve, per sempre, il Paradiso.

Ma non c’è da farsi venire l’acquolina al sesso né all’amore, queste sono cose che accadono nel tempo rubato e nel tempo perduto, ossia nel nostro tempo, quando di nostro non avemmo che noi, quindi avevamo tutto il tempo che eravamo, perché noi fummo anche gli orologi: le pendole oscillanti, i quadranti circolari con dentro i nostri movimenti di lancette e bilancieri e rotelline opposte in sodalizio, i display pulsanti, anche le meridiane con le nostre ombre addosso, lente, quando gradivamo la lentezza; e fummo la clessidra, come no, che, capovolta, ricomincia a scorrere.

Sì, sono cose che accadono. Accadono, sì, nel tempo passato, passato insieme intendo. In questo tempo presente, invece, accaddero. Non so perché mi viene in mente adesso questa attualità al passato, quel tempo segregato dell’amore, che noi isolammo, isolando noi con esso.

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