La scorsa settimana il ministero degli Esteri ha organizzato una videochiamata tra i ministri della Salute di Serbia e Kosovo per coordinare la reazione dei due paesi all’emergenza coronavirus. Un successo diplomatico rilevante, considerato lo stato attuale dei rapporti tra Belgrado e la sua ex provincia meridionale. Nel 2008 il Kosovo si è dichiarato unilateralmente indipendente, dopo esserlo diventato de facto con la guerra di secessione (1998-99) conclusa dai bombardamenti Nato in Serbia. Operazioni estemporanee come questa tradiscono però un’assenza. Da anni l’Italia non persegue alcuna strategia coordinata e riconoscibile verso i Balcani occidentali – l’etichetta che raggruppa Montenegro, Serbia, Macedonia del Nord, Albania, Bosnia-Erzegovina e Kosovo. L’iniziativa è solitamente demandata all’intraprendenza dei soggetti che operano sul territorio, come le ambasciate. Questa chiamata è stata, per esempio, facilitata dalle truppe italiane della Kfor, la forza di peacekeeping che la Nato mantiene in Kosovo dal 1999.
La vicinanza geografica costringe Roma a occuparsi di questa regione. Come sperimentato tangibilmente durante le guerre degli anni ‘90 sotto forma di flussi di profughi, gli sconvolgimenti che avvengono sulla costa orientale dell’Adriatico riverberano direttamente su quella occidentale. Pochi altri Stati dell’Ue hanno quindi un interesse così profondo nella stabilità della penisola balcanica, non intesa esclusivamente come assenza di conflitti, ma anche come solidità istituzionale e livello dignitoso di benessere diffuso. Questa consapevolezza esiste ed è il motivo per cui l’Italia ha sempre sostenuto il processo di allargamento, pur investendoci quote di energia e attenzioni discontinue.
Buona parte delle popolazioni e dei governanti della penisola guarda con manifesta simpatia agli italiani e al brand Italia. Un’ammirazione che in alcuni casi rasenta l’idolatria, specie in Albania, dove anche alcuni episodi storici deplorevoli in una prospettiva italiana – il protettorato fascista del 1939-41 e l’accoglienza accordata ai profughi di inizio anni ‘90 – suscitano ricordi positivi presso molti albanesi. Un tale capitale simbolico, che l’Italia può vantare solo a queste latitudini, potrebbe essere agevolmente convertito in soft power, fornendo a Roma un’opportunità per puntellare la propria posizione sulla scena internazionale.
Un rafforzamento che andrebbe a beneficio anche dei partner della costa orientale dell’Adriatico, come suggeriscono i momenti in cui l’Italia prende posizione. È successo, per esempio, lo scorso autunno, all’indomani del rifiuto di aprire i negoziati con Macedonia del Nord ed Albania deciso su diktat franco-olandese dal Consiglio Europeo di ottobre. Roma si era pubblicamente schierata a favore dell’inizio dei colloqui di adesione con Tirana e Skopje, sia tramite dichiarazioni pubbliche del premier Giuseppe Conte che con iniziative diplomatiche di alto profilo, come la missione del ministro degli Esteri Luigi di Maio in Albania lo scorso dicembre. E proprio Tirana cerca spesso la sponda con Roma al fine di accrescere le proprie quotazioni, come testimoniano le frequenti sortite italiane del premier Edi Rama, o, ancora più iconicamente, il recente invio di trenta medici albanesi in Italia per aiutare a fronteggiare l’emergenza coronavirus.
Mosse come quelle effettuate dalle autorità italiane dopo il clamoroso non del Consiglio Europeo, che ha poi approvato l’inizio dei negoziati (pur in una modalità ampiamente rivista) con Skopje e Tirana lo scorso 25 marzo, giovano al presigio dell’Italia, ma non sopperiscono all’assenza di una strategia di ampio respiro. Assenza ribadita in numerose occasioni (perse).
Si contano invece innumerevoli i segnali della scarsa propensione del Belpaese ad approfittare delle buone carte che si ritrova in mano. Limitandosi a un esempio istruttivo: durante i cinque anni (2014-19) in cui la carica di Alto Rappresentante della Politica estera Ue è stata occupata da Federica Mogherini, non si sono segnalate iniziative rilevanti da parte di Roma. Il Western Balkans Summit del 2017, ospitato a Trieste, è stato un fuoco di paglia.
Negli anni ‘90 l’Italia era sembrata capace di elaborare e perseguire una linea autonoma, gradualmente si è accodata a rimorchio dell’Ue, più per accidia che per spirito di comunità. Dopo l’ingresso della Croazia (2013), anche l’azione di Bruxelles ha perso mordente. I sei stati dei Balcani occidentali restano nell’anticamera del club comunitario. La loro adesione è invocata come panacea per chiudere definitivamente con il loro turbolento passato (secessioni, guerre civili, scontri interetnici), ma questo obiettivo appare sempre più lontano.
Giù subito dopo l’allargamento del 2004, quando dieci Stati entrarono simultaneamente nell’Ue, si iniziò a percepire un’enlargement fatigue, il sentimento sempre più diffuso presso funzionari e popolazioni europei che l’adesione di nuovi membri non fosse importante o addirittura nociva. Nel 2018 un sondaggio di Eurobarometer rilevava che l’allargamento era l’unico tra i dieci ambiti della politica Ue oggetto del sondaggio a non incontrare il favore della maggioranza degli intervistati.
Al momento, l’azione dell’Unione europea nella regione pare efficace sotto tre aspetti: la prospettiva di entrare è un forte incentivo per le élite locali a promuovere le penose riforme necessarie per rafforzare lo Stato di diritto; i fondi comunitari portano sviluppo, specie in termini di infrastrutture (“connettività”), occupazione e potenziamento del settore privato. E gli interventi su scala ridotta sono spesso rivolti a istanze trascurate dai governanti locali, come l’integrazione delle minoranze, le politiche di genere o la difesa dell’ambiente. Grazie all’Europa beneficiano anche gli strati più vulnerabili della popolazione.
Questo quadro può essere incoraggiante o deprimente, dipende dal punto di vista. Eppure il summit di Salonicco del 2003 aveva promesso un futuro europeo alla regione, ma quelle promesse restano largamente disattese.
L’efficacia dell’Ue è limitata perché i 27 Stati hanno interessi diversi. Alcuni paesi spingono per allargare tanto e subito, altri per rimandare il processo di adesione a data da destinarsi. In entrambi i casi, e nelle posizioni intermedie, contano le ambizioni dei singoli membri (approfondire o diluire l’integrazione europea), più che la solidarietà verso i balcanici.
Ad oggi, l’allargamento dipende molto di più dagli interessi e le dinamiche politiche nel Consiglio Europeo che dagli effettivi progressi dei candidati, registrati meticolosamente nei report dalla Commissione europea che può mobilitare ingenti risorse economiche, ma resta in gran parte ostaggio delle decisioni degli Stati perché non ha un suo capitale politico da impegnare.
Si spiega in gran parte così il fatto che finora Bruxelles si sia dimostrata incapace di risolvere alcuna disputa bilaterale tra le tante fazioni che animano l’ex Jugoslavia. Da quelle più intricate, come i rapporti tra entità e comunità nazionali in Bosnia-Erzegovina, a quelle più marginali, che addirittura coinvolgono Stati membri, come la controversa costruzione del ponte di Sabbioncello, o il contenzioso della Baia di Pirano.
Il dialogo Belgrado-Pristina, a sette anni dal celebrato Accordo di Bruxelles, non solo ha prodotto poco di concreto, ma non ha nemmeno impedito il deterioramento dei rapporti bilaterali. Per rappresaglia contro l’ostruzionismo di Belgrado nei consessi internazionali. A fine 2018 Pristina ha imposto dei dazi del 100 per cento all’import proveniente da Serbia e Bosnia-Erzegovina, senza che le minacce dell’Ue sortissero effetto alcuno. L’unica parziale eccezione era stata la risoluzione dell’annosa querelle sul nome tra Macedonia (del Nord) e Grecia nel 2018, dovuta però più al coraggio dei due governi che alla mediazione dei funzionari brussellesi.
La nomina dello spagnolo Josep Borrell ad Alto rappresentante per la politica estera Ue e dello slovacco Miroslav Lajčák a Rappresentante speciale dell’Ue per il dialogo Belgrado-Pristina mostrano bene l’attenzione che ora l’Ue può e vuole dedicare al dossier: Spagna e Slovacchia sono tra i cinque Stati membri che non riconoscono il Kosovo.
Specie dopo l’insediamento di Donald Trump, gli Stati Uniti invece stanno giocando una partita autonoma nel quadrante balcanico, incurante delle ricadute regionali e delle conseguenze di lungo termine delle proprie sortite diplomatiche.
L’ultimo esempio, poche settimane quando gli Usa hanno fomentato la crisi di governo che ha portato al collasso del governo di Albin Kurti, in piena emergenza coronavirus. Molti osservatori hanno ricondotto la fine dell’esecutivo alla resistenza che il premier avevo opposto alle pressioni di Richard Grenell, l’uomo di Trump nei Balcani occidentali, finalizzate a far rimuovere obtorto collo i dazi introdotti due anni fa.
Nelle previsioni più fosche (e per ora più remote), il ritorno al potere della vecchia guardia potrebbe spianare la strada all’accordo ventilato nel 2018 dai due presidenti, il kosovaro Hashim Thaçi e il serbo Aleksandar Vučić, sullo scambio di territori, presentato come l’anestetico definitivo per sedare la tensione tra le due capitali. Considerati gli esiti catastrofici dei precedenti progetti di “scambi di territori” nei Balcani, e quindi nel resto del continente, questa prospettiva dovrebbe allarmare le cancellerie dei 27 e spingerle a condannarla in blocco. Anche in questo frangente, tuttavia, l’Ue sembra restare alla finestra, impotente.