C’è un’innovazione nel mondo della gastronomia che probabilmente è passata inosservata ai più. A chi invece ne avesse intercettata la genesi, magari è sembrata di poco conto, di quelle cose che storci appena un lato del labbro in una smorfia di sottile indifferenza e tiri avanti. In un certo senso infatti, non sono le ghost kitchen sempre esistite? Le cucine fantasma (chiamate anche dark kitchen) sono un fenomeno meno esotico e sicuramente meno inquietante di quanto gli appellativi lascino presagire.
Sono, riducendo la questione all’osso, ristoranti senza sala e tavoli. Sono strutture attrezzate come cucine professionali a tutti gli effetti, la cui produzione è destinata alla vendita da asporto o per consegna a domicilio. Sono quasi delivery: le gastronomie di quartiere anni ‘80, ottimo vitello tonnato e quell’espressione del proprietario, aggraziata e un po’ dimessa, quasi a presagire il declino incombente che avrebbe travolto lui e i suoi simili a causa dell’affermarsi dei cibi pronti da supermercato e al più generale mutamento dei costumi.
Però c’è una prima differenza sostanziale con gli antenati novecenteschi. Le ghost kitchen non hanno solitamente zone aperte al pubblico o banconi, l’elemento vendita al dettaglio è rimosso del tutto. A parte questo, come si sa, il diavolo è nei dettagli. E sono “dettagli” come differenze nella struttura, nel modello di business, nell’assetto proprietario, e nella relazione con le controparti commerciali che rendono questa innovazione meno banale di quanto sembri.
Come racconta Eater, a Portland da qualche giorno sono disponibili sulle piattaforme di delivery i panini al pollo fritto di Fuku, uno dei brand del celebre star chef David Chang. Catena “fisica” in altre città, Fuku a Portland si serve di un partner fornitore di cucine fantasma – in questo caso mobili, sotto forma di camioncini attrezzati e parcheggiati in piazzali fuori mano – per testare nuove piazze e nuovi mercati con minimo se non alcun investimento. Arrivano i semilavorati e gli altri ingredienti da assemblare e cuocere dal personale locale, per poi essere distribuiti attraverso le comuni piattaforme. Questa è una declinazione innovativa del modello (non ci sorprende da uno astuto come Chang), in quanto consente a un brand fisico già affermato di esplorare nuove opportunità senza quasi alcun rischio. E di farlo concretamente, sul campo, non attraverso studi o ipotesi.
Può trattarsi di un brand già affermato come Fuku, ma questa strategia fluida ed efficiente è perfettamente adattabile anche a piccoli business in cerca di espansione, o come fase di start-up per nuovi business e in generale per tutti quanti nel settore si trovino a fare i conti con finanze sofferenti.
Ma al di là dell’evidente funzione di creare o facilitare business, è interessante indagare se il fenomeno abbia potenziali di ricaduta positivi più ampi. Ad esempio, negli Stati Uniti, l’esperienza del fast food è una questione di praticità e asporto. Che la diffusione di “ristoranti virtuali alternativi” con cucina e ingredienti di qualità, e prontamente disponibile per asporto e consegna, possa scalzare anche parzialmente la supremazia del cibo spazzatura, e diffondere una cultura di fast food più sana e adeguata? La questione ha rilevanza anche in Italia.
Questa figura di “nuovo intermediario” è non solo un semplice facilitatore tra due settori, ma un operatore economico la cui funzione è più ampia e può innescare ricadute sociali, ambientali, o di sostenibilità alimentare. Pensiamo a un operatore di ghost kitchen che magari, invece di fornire solo la struttura come nel caso di Chang, sia coinvolto anche nella selezione di materie prime da agricoltura sostenibile o da piccola produzione, mercati ai quali un possibile piccolo business di ristorazione semplice avrebbe difficile accesso, anche per poca sensibilità al tema. A Milano, i ragazzi dietro Soul-K creano nelle loro cucine fantasma piatti pronti caldi per piccoli esercizi di ristorazione con cucine limitate, o semilavorati con ingredienti scelti e di qualità su misura ad uso di chef professionisti che vogliano alleggerire il carico delle preparazioni in cucina. Ktchn Lab, auto-celebrata come prima ghost kitchen in Italia, crea e gestisce internamente brand di ristorazione imperniati sul concetto di iper-locale, e di materie prime scelte. Sono esempi di come piccoli produttori – lontani per vocazione ed esperienza dal mondo del cibo pronto – possano entrare in quel campo, migliorandolo.
Quando le cucine fantasma sono mobili, stazionano di solito in aree dimesse di nessun appeal o in edifici di difficile uso alternativo (come magazzini in disuso), pertanto contribuendo a un ri-livellamento dei valori immobiliari, alla riqualifica urbana e al contrasto della spirale viziosa per cui se un ristorante vuole avere successo deve trovarsi in location appetibile, cioè costosa. Il senso deve essere questo, il modello per essere davvero un’innovazione utile socialmente oltre che economicamente, deve avere l’ambizione e la capacità di andare oltre un semplice restyling in salsa digitale della cara vecchia cucina da asporto.
Nel caso base, come ad esempio i due pionieri di questo modello in Italia Rose&Mary e Foorban, la cucina fantasma è struttura a proprietà e gestione interna lungo tutta la filiera, dalla gestione degli chef e del personale fino alla consegna. Ma le varianti sono molteplici e ingegnose. Ad esempio, possono ospitare ristoranti virtuali, con anche più di un brand operante all’interno della stessa ghost kitchen; oppure possono essere l’estensione in forma delivery di ristoranti fisici già esistenti, con menu identico o specificamente disegnato. Possono essere strutture fisse o mobili. La proprietà può essere interna come per Foorban e Rose&Mary, oppure indipendente e fornire al brand occupante servizi accessori e consulenze varie. Ad esempio sull’ideazione del menu, sulla gestione dei fornitori, su strategie di vendita. Ancora, proprietà e gestione possono far capo a società di delivery già consolidate, Questo tipo di commistione tra delivery e ghost kitchen è una variante in fortissima crescita e il principale motivo per cui il fenomeno è in grande esplosione da inizio 2019. Queste affittano gli spazi di cucina a ristoranti fisici già esistenti che vogliano espandersi nella delivery o brand di nuova e apposita costituzione. Le società di consegna Deliveroo e Uber Eats stanno rodando a Londra e Parigi ambiziosi programmi di cucine fantasma.
Glovo a Milano ha da pochi giorni aperto la propria ghost kitchen che guarda a un modello misto ancora scarsamente sperimentato: partnership con ristoranti preesistenti per creare le loro linee solo delivery, più brand e menu private-label di ideazione e proprietà di Glovo. Questa crescente espansione del fenomeno da parte delle società di delivery era prevedibile ma presenta risvolti ambigui su quanto davvero il tutto sia d’aiuto ai piccoli business. Immaginiamo di cercare “cinese” su una piattaforma di consegne. Cosa ci viene proposto prima, gli affiliati alla ghost kitchen della piattaforma, o tutti gli altri, magari ottimi, piccoli ristoratori indipendenti?