Quando cerchi un senso nelle cose e nel discorso, in un fatto e in un filmaccio, in un romanzetto e in un romanzaccio, nelle poesiole, in una ghigna e in un sorriso, nella matassa dell’umane cose, nella stessa sensibilità, quando cerchi un senso anche negli organi di senso, e nelle cadute rovinose sotto i sensi, e nel senso di qualcosa, e nel senso di sconforto e di abbandono, e nei sensi della mia stima, e nei sensi della mia devozione, e negli errori e nelle illusioni dei sensi, e nei sensi inversi e doppi e vietati e nei controsensi, e nel perderli e nel ritrovarli, i sensi, e anche nel vuoto del senso di vuoto, e nel senso di languore nello stomaco, nel senso d’orientamento, nel senso comune e nel far senso, in questo (quale?) e in ogni altro senso, e in tutti i sensi, ecco, quando cerchi un senso, uno che sia uno, lo trovi: è il senso di colpa, intesa sempre come colpa altrui.
Al massimo la tua colpa è quella d’esserne vittima (della colpa altrui), va aggiunto: inconsapevole (adesso che pensi al senso di tutta la faccenda). Ricomincio.
Qual è il primo senso che trovi e che addirittura ti soddisfa, ti appaga, ti placa, ti pare conveniente al cambio di te stesso con un altro te (ecco l’altro che nell’altro sei tu) più pusillanime (di quanto tu già sia, non facciamo gli ignoranti), più opportuno per il tuo opportunismo, più adatto per il tuo adattamento, e addirittura più vantaggioso per il tuo vantaggio? Te lo dico io (l’ho già detto), questo: il senso della colpa altrui (mi ripeto ma per giovare). Così è.
Che voglio dire? Questo virus, del quale sento parlare. Non so se s’è capito da che nasce. Dall’attribuzione della colpa a altri. Cioè, voglio dire: i sentimenti. Vanno alimentati, sono famelici, nascono come fauci, come i becchi aperti degli uccellini nel nido, si aprono al mondo e sarebbero capaci di ingoiarlo.
Per esempio un gozzo grande come Giove, se volesse, ingoierebbe la Terra se solo Giove (è una stella mancata, fu un dio) si spalancasse come un pesce palla affamato (venefico anche, se non tagliuzzato da cuochi espertissimi), per non parlare della nostra galassia che però ci ignora, noi essendo soltanto un granello di polvere ai bordi della cofana rotante con dentro la pappatoia delle stelline, una minestra.
Ecco, per dire: il sentimento d’amore, uno dei tanti sentimenti della nidiata, spalanca il suo vacuo cavo orale e ingolla a brandelli, a bocconi, a pezzi interi, a strappi, a strascichi, l’oggetto alimentare del suo amore. È ovvio: nasce prima l’amore (che è una presunzione) e poi l’amata o l’amato o la cosa amata, che sono solamente un alimento (un’assunzione).
Insomma, il sentimento di colpevolezza altrui, questa vile voracità che sulla terra, in tutti i continenti, spalanca i suoi beccucci, i suoi rostri, ecco, questo sentimento ha prodotto il suo alimento.
Si sa, in natura nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma in opportunità: è Lavoisier questo, mica un comico. È semplice, è scienza: la scienza è semplice se non la vai a spiegare. È la richiesta che fa il totale delle cose apparse sulla terra. Se la richiesta è grande, eccola qua, è pandemica. Il senso di colpa altrui prende forza, si viralizza, si attiva aggressivo (le cose dicono le parole, non il contrario).
È noto, in Italia abbiamo un movimento proprio fondato – è nello statuto – sulla colpa altrui. E nel mondo non scherzano, sono diventati suscettibili e permalosi i continenti, gli stati, le nazioni, i regni, le repubbliche, gli imperi, tutti «Ciccio mi tocca, toccami Ciccio». Ecco, Ciccio ci tocca. Tutto qua. E dopo la pappata al trogolo colmo di colpa altrui, ecco che ci si rotola nella fanga avvolgente di quell’altro senso, vilissimo anche quello, quel senso di sollievo, roseo, color suino.
Siamo perfidi al mondo, mica no. Si percepisce il grugnito di questo senso bofonchiante. Sì, il senso di sollievo, la soddisfazione che nella melma ci puoi volteggiare col tuo roseo peso, anche istituzionale. Tutti che: la colpa non è nostra, non sono stato io, io non c’entro, non c’ero mica io nel pipistrello, ché è sempre, poi, di Dracula la colpa del pallore.
Non è nostra la colpa ma di una invisibile testa di cazzo coronata da raggi e pungiglioni prensili. Vediamo di stare uniti separatamente in guerra contro uno, il nemico virale, colpevole di tutti i nostri affanni, di noi molto affannati in tutto.
Governi ben pettinati, ma scompigliati nel cervello e poi nel resto, reggono, si sentono, appunto, sollevati, perfino nei sondaggi. Viaggiano in palmo di mano, su guantiere da asporto, sopra i centrotavola delle famigliole come trionfi di frutti del tempo. Insomma, trionfi: diciamo tracolli, flosce vesciche però pompate a sbuffi di sollievo come i salvagente fatti a papera gonfiabile (se fu inefficace soffiare sul fuoco, altro non resta che soffiar nel vuoto).
Poi, per non dimenticare gli affetti, parliamo un po’ di lei: l’economia. L’economia sonante e problematica. È un problema? C’è la soluzione. Dov’è la soluzione? È nel piano. Ne scrissi anni fa in un saggetto di economia applicata come un cerotto al mondo (per la rivista Opificio, è tutto vero).
C’è un piano, lo conoscono in pochi e quei pochi sono io. Si suona con una mano sola questo piano, l’altra serve per portarlo al tavolo (per tutto si apre un tavolo, come una voragine si apre) in palmo di mano, su guantiera, per porlo al centro (del problema, della questione, del dibattito, del discorso).
In stretta sintesi il motivetto fa così: essere poveri ma esserlo tutti. Fatto, risolto: tutti a reddito obbligatorio su base francescana (e la vacanza è un obolo). Questo è il piano, tutti sazi e soddisfatti per abbondante assunzione di senso di colpa altrui, tutti in sollievo vendicativo, il massimo dei sollievi: che altri non più cada nella tentazione di arricchirsi.
Tutti in letizia e in preghiera non avendo altro da fare. E nei programmi televisivi di conversazione si parlerà con gli uccelli, senza nemmeno alludere. Fine del problema (e del virus che, assolta la sua funzione di incentivo pandemico, si suiciderà, sparirà da solo). Questo è il disegno, avendo la mano libera: meglio se tutt’e due, che è ambidestria.
Le cose che sembrano difficili sono cose facili mascherate di competenza. La verità torna a galla nel suo salvagente a paperella. Buona fortuna a tutti: è un modo di dire che viene dal cuore, che anch’esso è un modo di dire. Sì, lo so, c’è chi non può leggermi perché non c’è più, e questo dispiace, e qui le chiacchiere stanno a zero (non i numeri).