A questo punto la sfida comune, per i diversi Occidente e Oriente, i diversi Nord e Sud del mondo, non è tra globalizzazione e coronavirus.
Come se la grave crisi respiratoria dell’economia interconnessa e l’incognita di un incubo sanitario in perenne agguato si disputassero tra di loro una partita riservata solo agli allenatori, usando il solito mazzo di carte e negando possibilità e autonomia di interventi a giocatori, arbitri, spettatori tramortiti da uno shock mentale e materiale senza paragoni.
Il prezzo tragico pagato fin qui in lutti, dolori, sofferenze e solitudini, mentre la pandemia sposta la sua aggressività fluttuando di latitudine e longitudine, impone di non confondere i piani, non tirare giù bilanci affrettati e non dare per scontato né lo svolgimento della gara né il risultato finale.
L’impatto del Covid-19 sulle nostre società e sui comportamenti quotidiani, perfino sui valori che ci tengono legati, deve spronare tutti i soggetti della scena internazionale a prendere in mano e riscrivere, con pazienza ma con determinazione e velocità, l’agenda delle priorità, le prospettive.
Pensare che il rebus sia unicamente far ritrovare alla globalizzazione il passo precedente, che le regole non necessitino di una revisione radicale ma che si tratti di attendere (con qualche aggiustamento ed elargizioni agli strati più deboli) la scoperta di un vaccino polivalente davvero miracoloso, in grado in primo luogo di fornire immunità all’intero gregge umano rispetto al contagio e di mettere i processi economici, finanziari e produttivi al riparo della tempesta, credere in ciò equivale a coltivare perniciose illusioni.
Fuor di metafora, la sfida sarà su quale globalizzazione andiamo cercando e con quali idee, obiettivi e strumenti intendiamo costruirla; e il Covid-19, nella fase di convivenza obbligata e di progressivo debellamento, è esso stesso un elemento del cimento e delle trasformazioni che ci aspettano, un avversario la cui pervasività e pericolosità obbligano a riequilibrare risorse, investimenti, indici di benessere.
Il primo virus da arginare e rendere innocuo – come hanno dimostrato questi mesi drammatici e convulsi in alcuni Paesi cruciali – è senza dubbio il sovranismo nazionale nelle sue innumerevoli declinazioni. L’angustia ideologica e la velleità politica di un ritrarsi dentro muri e confini, l’incapacità di immaginare e costruire un destino condiviso, lascerebbero ogni Stato, ogni economia più esposta, fragile, più asfittica.
Il lungo duello della Guerra Fredda postbellica è da un pezzo alle nostre spalle, il sistema capitalistico ha vinto per sempre la sua competizione con il sistema pianificato. L’ha vinto sul piano politico e l’ha vinto sul piano strutturale e tecnologico con l’avvento del meccanismo globale e del linguaggio digitale.
La pandemia, per i suoi effetti e il significato simbolico, non mette tutto ciò in discussione. Sarebbe un suicidio collettivo la moltiplicazione di ristrette dinamiche statali, la rinuncia alla regolazione sovranazionale dei mercati, l’esplosione di conflitti commerciali endemici dei quali vediamo un allarmante test nell’esibizione muscolare tra Stati Uniti e Cina, prima, durante e oltre il dossier Covid-19.
La globalizzazione, lo abbiamo imparato, non è un concetto neutro. È il contesto, una trama complessa, da trasformare secondo una visione ambiziosa e lungimirante. Il cui parametro, ecco la profonda lezione della tragedia che nel 2020 non ha risparmiato nessun continente, non può più essere espresso dal tradizionale nesso mercato-rischio-rendimento.
No, il motore della globalizzazione va riconfigurato in base all’impatto che le politiche e dinamiche dominanti hanno da un punto di vista ambientale e sociale. Il virus ci ha colto fragili. La sfida sociale e ambientale della globalizzazione era lì prima della pandemia e ora diventa ancora più urgente.
Papa Francesco annuncia il varo di nuove linee ecclesiali coerenti con la rivoluzionaria enciclica Laudato si’. L’Onu definisce i prossimi dieci anni decisivi per poter invertire l’inquinamento climatico, fenomeno in cima alla lista non delle catastrofi incombenti ma delle piaghe reali del pianeta.
La lievitazione e gli spostamenti demografici intersecano e confliggono con la circolazione dei prodotti, in una contraddizione lacerante tra il desiderio di liberazione dalla fame e dalla miseria per masse sterminate di popoli finora esclusi o fermati sulla soglia del progresso e la spavalda libertà delle merci, sola religione che non conosce eresie e anatemi.
La riduzione e il disequilibrio delle biodiversità silenziosamente ci consegnano l’estinzione di ecosistemi. Sì, abbiamo bisogno di maggiore, di una vera multilateralità, in primis nello sviluppo dei processi politici e nella scelta di misure vincolanti e omogenee.
Fino poco tempo fa potevano sembrare ossessioni o sogni di frange più o meno radicali, grida d’allarme di scienziati disfattisti. Oggi, tanto più con la pandemia, queste ed altre malattie apparentemente incurabili della Terra e dei nostri ecosistemi, sono all’ordine del giorno, sono il nostro imperativo e la sfida per le prossime generazioni.
Qui misuriamo una carenza di leadership globale, un limite che il coronavirus ha solo reso ancor più evidente, anche se l’Europa sta dando segnali rilevanti di controtendenza nelle ultime settimane (ma dovrà presto passare dalle parole ai fatti).
È la finanza d’impatto l’agente del cambiamento possibile, la chiave per incidere nell’essenza della globalizzazione post Covid-19. Se pensiamo che della massa di circa 100 trilioni di dollari complessivamente investiti, solo 30 trilioni oggi sono ESG, possiamo intuire le dimensioni quantitative e qualitative del tragitto da fare con la rivoluzione impact.
È la finanza che ottimizza anche la catena del valore sociale e ambientale e non solo il rischio e il rendimento il paradigma della rinascita e di una globalizzazione possibile. Ecco il nocciolo duro della questione: non è la fine della globalizzazione o il ritorno allo Stato imprenditore.
Piuttosto si tratta di costruire il ritorno (o finalmente l’avvento?) di una dimensione politica pubblica, nazionale e sovranazionale, che reimposti sul serio le opzioni strategiche, innanzi tutto esamini, enuclei e renda patrimonio comune le finalità e la portata di una grande opera di progettazione, non contenibile in un’effimera intervista televisiva e nei codicilli di una legislazione monstre.
Riorientare il mercato verso il suo “cuore invisibile” facendo leva sul favore fiscale è la strada maestra per scuotere e reimpostare gli indirizzi della finanza globale. Oggi solo 500 miliardi di dollari di capitali sono classificabili come impact oriented e dunque intenzionalmente orientati a generare impatti ambientali e sociali positivi e misurabili.
Pochi anni fa, nel 2012-2013 erano circa 50 miliardi, un bel passo avanti. Questa è la globalizzazione che dobbiamo costruire: usando finalmente la cassetta degli attrezzi della rivoluzione impact.
Qualcuno pensa davvero che si possa aspettare ancora?