Mi considero da sempre un ciclista urbano e solo da poco tempo ho iniziato ad esplorare l’uso della bicicletta nelle sue forme sportive. Bici e città sono per me un connubio inscindibile, perché la “biga” non è solo un mezzo di trasporto rapido, efficiente ed ecologico, ma è uno strumento eccezionale per connettersi empaticamente alla città, per riflettere su se stessi o sulle cose del mondo mentre pedali per le vie. Esiste personalmente anche un’altra dimensione del pedalare in città, quella che mi piace chiamare la “performance”, da non considerarsi sotto solo il mero aspetto fisco del termine; anzi.
Il mio è un gioco, l’ingaggio è molto semplice: non smettere mai di pedalare o meglio cercare di non interrompere se possibile la propria andatura. Questo comporta due cose: avere in testa il percorso migliore per il proprio tragitto e non sottostare alle regole della circolazione. Quest’ultima cosa può sembrare pura apologia a commettere infrazioni al codice stradale, ma in realtà non lo è se si è allenati, coscienti e rispettosi degli altri. L’immaginario di riferimento per intendersi, è quello dello stile di riding che adottano in forma estrema, i bike messengers in tutto il mondo.
Mentre scrivo queste parole, (metà aprile n.d.r.) gli orizzonti di fine segregazione domestica da lockdown emergenziale Covid-19 sono ancora nebulosi, ma da un paio di settimane grazie alla bicicletta sono parzialmente libero. Come è stato possibile? Ho iniziato a lavorare per una delle compagnie che a Milano effettua principalmente food delivery, ma non solo. La decisione l’ho presa nel momento in cui le maglie del confinamento domestico si sono fatte più strette, e una sera guardando dei rider dalla finestra di casa ho capito che quella poteva essere la svolta, anche perché sapevo che stare in strada a pedalare in questo momento storico sarebbe stato qualcosa di unico, che andava vissuto.
Fin dal primo giorno ho capito di non essere l’unico a sfruttare questa soluzione per poter uscire di casa a macinare chilometri per pochi euro; riconosci subito chi è in strada a far questo lavoro da poco; la borsa nuova splendente è il primo indizio, e poi l’etnia. Siamo principalmente italiani, soprattutto ragazzi e qualche ragazza, con belle biciclette a scatto fisso, bici da strada. Persone che come me, penso stiano lavorando per la smisurata voglia di pedalare. Ma non solo, c’è anche chi si è arrangiato con biciclette di bassa qualità o non adatte per macinare chilometri agevolmente; anche l’outfit dei neo rider dice molto, con stili in linea con la propria bicicletta. La bici si sa è anche appartenenza.
Poi ci sono i rider quelli veri, principalmente ragazzi stranieri africani o sudamericani che lavorano per più ore consecutivamente al giorno: molti di loro rientrano alla sera al proprio domicilio con i treni locali del sistema extraurbano perché un affitto a Milano è sicuramente proibitivo (e non solo per loro). Quando è possibile, durante il ritiro delle consegne scambio due chiacchiere con tutti, italiani e stranieri; di fatto sono l’unico contatto umano diretto che ho, non mediato da telefono o computer come succede invece per amici e parenti. Il pretesto per attaccare bottone è spesso il chiedere informazioni sulle loro biciclette, il paese di provenienza e da quanto tempo fanno questo lavoro. O anche informazioni sulla musica che ascoltano e che viene sparata dalle casse bluetooth, appese allo zaino o al manubrio della bici, un must soprattutto fra i rider di origine africana.
Il lavoro è molto semplice, mediato tutto dalla fatidica applicazione e dalla piattaforma, che incrocia la tua geolocalizzazione con la posizione del punto di ritiro; il punto di consegna può essere prossimo ma anche più distante. Tutta un’altra storia rispetto alla mia precedente esperienza in questo campo che risale ai tempi della mia gioventù, quando con il vespino, una radio e una pettorina sfrecciavo nelle vie della sfavillante Milano da bere degli anni ’80. Ai quei tempi potevi gestire e organizzare più ritiri e consegne contemporaneamente. Qui appena finita una consegna, possono passare anche pochi secondi che il sistema te ne assegna un’altra.
La cosa che in questi giorni rende semplice e intrigante lo svolgimento del lavoro, è la quasi totale assenza di traffico motorizzato. All’inizio ne sono rimasto spiazzato, mi sono detto “questo è il paese dei balocchi”. Pedalare avendo la strada tutta per te o per i tuoi simili è qualcosa che nella normalità puoi provare giusto la tarda notte, ma non in forma assoluta come ora. Il silenzio e solitudine che sperimenti soprattutto a partire dalla sera, è surreale. Questa dimensione apre infinite possibilità di rivedere radicalmente il mio normale approccio da ciclista urbano.
Innanzitutto la geografia della città e delle traiettorie per girarla; le strade e i viali ad alto scorrimento che di solito evito, ora diventano spazi dove puoi pedalare con cadenza molto alta, senza la preoccupazione di fermarti a incroci o semafori; questo significa anche pedalare con fantasia, creatività ed estetica, come nei tagli alle grosse rotonde; il contromano è un concetto che si annulla. Puoi fare quello che vuoi, ed esaltare l’endorfina prodotta dal flow continuo della pedalata. Pura estasi, e chi come me arriva dallo sci e ha il culto dell’estetica della linea, penso che possa comprendere cosa intendo. E così macini chilometri che non te ne accorgi, aiutato anche dal fatto che la città la conosco molto bene e non ho praticamente quasi mai bisogno di usare il navigatore dell’applicazione. Lavoro poche ore al giorno e posso permettermi una velocità media sostenuta, di fatto sono in strada per pedalare, il lavoro è solo un pretesto.
Di solito le mie ore di delivery sono divise fra la mattina e la sera, due dimensioni che danno sensazioni completamente diverse e influiscono anche sul modo di pedalare e anche sull’umore. Al mattino c’è più traffico, le vie sono relativamente più popolate, e il panorama del procedere e dominato dalle lunghe file fuori dai supermercati e i pochi negozi aperti. Tanti volti stanchi e rassegnati dietro le mascherine e mediamente il ritmo delle consegne è più basso. Di conseguenza la mia andatura è blanda; mi sembra quasi di stare in una situazione normale e forse vado piano anche per godermi la presenza umana. Dal tramonto in poi, quando riprendo a lavorare, si entra nella dimensione bella ma anche un po’ struggente della città segregata.
In queste prime settimane di lavoro, clima e temperature sono perfetti per chi come me ha una soglia di sopportazione del caldo molto bassa; tramonti e luci molto particolari la fanno da padroni. Tutto perfetto insomma, ma in realtà mi sento anche come uno spettatore esterno della segregazione umana della città. Le consegne mi portano nel centro come in periferia, eterogeneità umane tutte accomunate dal fatto di essere rinchiuse da settimane, ma non posso ignorare certo le differenze delle condizioni sociali di chi incontro e riflettere su come possa essere diversa la loro condizione da reclusi.
La sera il ritmo del lavoro è più alto e vivo le ore più come un divertimento che come un impegno. Poi arriva il momento di tornare a casa dopo l’ultima consegna, il flusso di adrenalina si ferma e ho tempo di guardarmi intorno mentre pedalo lentamente, contemplando particolari di case, alberi e monumenti; il silenzio è perfetto e viene interrotto solo dal vociare delle persone che si parlano fra balconi di palazzi. Mi sento fortunato per questa libertà ma quando incrocio sul cammino luoghi o locali a cui sono particolarmente legato, ora vuoti o chiusi, mi prende un po’ di sconforto e una malinconia profonda, una voglia di ritorno alla normalità; di fatto la mia è una libertà relativa, posso fruire della città solo in movimento e quando sono fermo mi rendo conto che tutto intorno a me è spettralmente spento.
Ad oggi non riesco ad immaginare come sarà il ritorno alla normalità del pedalare nel traffico, evitando portiere che si aprono all’improvviso, binari e tutto quello che comporta l’uso della bici nel contesto urbano. Spero solo che sia un ritorno veloce, ma so che non potrò mai scordare. Nonostante la criticità del momento, l’ambivalente bellezza del muoversi in una città dove le biciclette sono il mezzo di trasporto prevalente e la propria sicurezza personale l’ultimo dei problemi.
Questo articolo, firmato da Davide Branca, è uscito sul numero 10 della (bellissima!) rivista AlVento di Mulatero Editore, che ringraziamo per averci dato la possibilità di questa ripubblicazione. Le immagini sono state scattate da Davide durante la sua esperienza come rider.