Forse è lo scontro più violento dalla nascita del Conte bis. Qualcuno si farà male: il Consiglio dei ministri di ieri sera non ha deciso nulla, né lo poteva. Si continua a trattare con Autostrade, nessuno può fare previsioni.
La vicenda di Autostrade è un’enorme buccia di banana che Giuseppe Conte si è gettato da solo con una condotta inspiegabile che ha messo in difficoltà la Grande Frenatrice, la ministra delle Infrastrutture e dei Trasporti Paola De Micheli.
Lei gioca una sua partita complicatissima, che mette in causa anche la sua poltrona, stretta fra l’impeto grillino-contiano e gli interessi di Autostrade e forse – pensa lei – del Paese. Così ieri ha sganciato quello che un sottosegretario grillino ha definito a denti stretti «un siluro a Conte»: ha fatto circolare la lettera, datata 13 marzo, in cui informava il premier del parere dell’Avvocatura dello Stato.
Un parere netto: attenzione a parlare di revoca, si rischia un contenzioso che potrebbe costare allo Stato 23 miliardi. Un masso davanti alla caverna grillino-contiana del partito della revoca ad Autostrade. «Una vicenda assurda», commenta Matteo Richetti (Azione), «Una cosa gestita malissimo», aggiunge Raffaella Paita (Italia viva). Con il Partito democratico che non si capisce se segua la sua ministra oppure no.
In effetti qui alcune cose non tornano. Innanzi tutto l’atteggiamento di Conte, che in questa storia di Autostrade da andreottiano sembra diventato Di Battista. La sua fluviale intervista all’house organ chiamato “Il Fatto” conteneva toni ultragrillini non esattamente consoni a un presidente del Consiglio che deve intavolare una trattativa su una fondamentale concessione stradale, una sorta di “vaffa” ai Benetton che fra l’altro lascia aperti diversi interrogativi sul futuro della gestione della rete autostradale.
E lasciamo stare le ripercussioni in Borsa di quella intervista al fido Travaglio e chi ci ha speculato sopra un’intervista così ultimativa, persino con accenti “morali”, che ha spiazzato la ministra e quanti cercavano una mediazione.
Poi c’è il mistero della linea del Partito democratico, alla fine sdraiatosi completamente su Conte mentre in un primo tempo – e forse anche nelle ultime ore – sembrava andare verso la ricerca di un compromesso che evitasse la revoca pur ridimensionando fortemente i Benetton. Un Partito democratico ondivago, che dà sempre l’idea di saperla lunga ma che in realtà è diviso fra “revochisti” e “trattativisti”.
In questo ginepraio, Paola De Micheli, che ha visto andare in pezzi il rapporto con il premier malgrado le smancerie di quest’ultimo raccontate dalla Stampa («Sei la mia preferita»), non ci sta a fare il capro espiatorio dei ritardi né a recitare il ruolo della passacarte.
Perché la ministra è una tosta come gli emiliani quando sono tosti (cioè praticamente sempre), se non è convinta lo dice, se i conti non tornano non fa finta di niente. Occhio a quello che conviene, nell’interesse di tutti: l’emiliano, contadino, imprenditore o ministro non importa, ragiona così.
Ai tempi della Margherita era “lettiana” anche se molti la scambiavano per bersaniana probabilmente perché della stessa città dell’allora leader del Partito democratico, Piacenza, in odor di Lombardia ma orgogliosamente emiliana. Sembra una nipotina del Pci, come movenze e estroversione, invece no, una volta ha rivelato persino che da giovane voleva andare in convento, altro che comunista. Criticata da molte parti nel suo partito, anche in quegli ambienti zingarettiani dove infine era approdata, la ministra oggi è un problema.
Forse la sua appartenenza al mondo di Enrico Letta all’epoca d’oro dei fasti di Vedrò, l’associazione che per un momento fu il faro per mezza imprenditoria del nord, Benetton compresi, l’ha resa in questi mesi sensibile alla funzione di Autostrade; e poi c’è il tema del futuro dei lavoratori di Aspi, se questa crolla.
Ecco dunque che di fronte all’assalto di un Conte travestito da Di Battista, la pragmatica Paola ha sganciato una bomba che può fare male.
Se l’aspettava, il neo-dibattistiano Conte, un ammutinamento della ministra? Nel braccio di ferro è anche possibile si trovi alla fine un compromesso digeribile per Aspi e ingoiabile per il ministro degli Esteri Luigi Di Maio (che fa l’altro in serata ha ottenuto la candidatura in Liguria del “fattista” Ferruccio Sansa con il beneplacito del Partito democratico e l’ira dei renziani che andranno da soli).
Non è affatto detto che la Grande Frenatrice alla fine la spunterà, lei e il suo pragmatismo emiliano dove, alla sera, i conti della giornata devono quadrare, e se le basterà battere il pugno sul tavolo alzando un pochino la voce – «ohé ragassi non son mica d’accordo con sta cosa qua» – per aver ragione dell’avvocato bocciato dall’Avvocatura. Il quale in ogni caso si è infilato nell’ennesimo pasticcio e stavolta il rischio è che ne paghi le conseguenze. Oltre agli italiani, naturalmente.