Preoccupata dalla situazione dei Balcani, questo mese l’Italia ha chiuso le frontiere con Bosnia Erzegovina, Macedonia del Nord, Kosovo, Montenegro, Serbia, e dallo scorso weekend imposto la quarantena a chi arriva da Romania e Bulgaria, un unicum visto che si tratta di due paesi membri dell’Unione europea.
Il fatto di essere parte dello spazio di libera circolazione o meno, però, in questo caso non sembra fare la differenza. Mercoledì 22 luglio la Romania ha toccato il picco più alto dall’inizio della pandemia nel giro di 24 ore: 1.030 nuovi infetti, che vanno ad unirsi ad un conto totale di oltre 40mila casi.
Anche il Montenegro, che pure a maggio si era dichiarato “libero” dal coronavirus, oggi registra il tasso di infezione più alto fra i Balcani occidentali (+45%), con quasi 2mila casi su una popolazione di 620mila persone. Lo seguono Bosnia (+22,8%), Croazia (+17,0%), Kosovo (+16,4%), Bulgaria (+16,1%), Romania (+15,1%), Albania (+14,5%), Serbia (+13,8%) e Macedonia del Nord (+12,8%). In termini assoluti, il paese con più casi e decessi è la Romania (rispettivamente 37.458 e 2.026 al 20 luglio), quello che ne ha di meno il Montenegro (1.771, 32 decessi).
Venerdì scorso in Bulgaria si registravano 268 nuovi casi, per un totale di circa 9mila infetti e 300 morti. Lo stesso primo ministro Boyko Borisov sembrava a rischio contagio dopo il recente viaggio verso le istituzioni europee per il summit di Bruxelles (a seguito di un breve periodo in quarantena, il tampone è però risultato negativo).
Borisov è, fra l’altro, recentemente riuscito a scampare il voto di sfiducia del suo Parlamento richiesto dall’opposizione, che puntano il dito contro alti livelli di corruzione, dopo che la polizia aveva saccheggiato l’ufficio del leader dei socialisti. Da diversi giorni una parte del paese protesta e chiede le dimissioni del presidente, accusato di essere un “mafioso” dalle opposizioni.
La Bulgaria non è l’unica a vivere queste situazioni: la crisi del coronavirus ha scatenato movimenti di massa in diversi paesi della regione, dove la gestione della pandemia si intreccia con questioni politiche. In Serbia violente proteste sono emerse nelle scorse settimane, apparentemente contro l’annuncio di un nuovo lockdown di tre giorni nella capitale da parte del primo ministro Aleksandar Vučić in seguito al repentino aumento dei contagi, ma in realtà critico verso l’intera gestione dell’epidemia. Le immagini degli scontri tra la polizia e i manifestanti che, a Belgrado, provavano a entrare nel palazzo del parlamento, hanno fatto il giro del mondo.
Secondo le opposizioni il governo serbo avrebbe mentito sul numero di morti registrate: ben 632 dal 19 marzo al 1 giugno, mentre Belgrado ne ha comunicate solo 244. Un’azione, a detta di tutti gli analisti, volta a giustificare le riaperture e a dare un’impressione di ritorno alla normalità, in vista delle elezioni del 21 giugno, per le quali Vučić aveva spinto molto, e che ha vinto con il 63% dei consensi.
I manifestanti puntano il dito contro le riaperture avvenute prima delle elezioni, che hanno portato ad un drastico aumento dei contagi e di morti. Di recente oltre 350 medici hanno firmato una lettera per chiedere che la squadra di crisi del governo sia rimpiazzata, e che la scienza ritorni ad essere il metro delle decisioni, prima della politica.
Le elezioni sono in effetti state un fronte caldo per diversi paesi della regione. In Croazia a inizio luglio il partito conservatore HDZdel premier Andrej Plenkovic si è aggiudicato la maggior parte dei seggi in parlamento. In maniera simile a Vučić in Serbia, anche il primo ministro croato aveva interesse a farle cadere a seconda del suo interesse (erano previste in autunno) per capitalizzare il consenso ottenuto inizialmente nella gestione della crisi. In più, dicono gli analisti, i danni economici della crisi (secondo alcune previsioni, il paese sarebbe il terzo più danneggiato al mondo) avrebbero potuto compromettere il risultato alle urne.
Anche in Macedonia del Nord le elezioni sono state anticipate al 15 luglio, malgrado i casi siano in aumento: quasi 10mila in totale su una popolazione di 2 milioni di persone, con oltre 400 vittime. A Skopje, in maniera simile a quanto successo in Lombardia, gli ospedali sono diventati luoghi di propagazione dei contagi.
Il risultato delle elezioni, che ha visto vincitore il partito dei socialdemocratici SDSM, è però stato contestato per via di un hackeraggio al sistema di conteggio dei voti, per cui i risultati non sono ritenuti affidabili. In Montenegro, invece, le elezioni sono previste a fine agosto, ma è probabile che mancheranno i supervisori europei previsti per garantire la trasparenza del voto.
L’avvento della pandemia nei Balcani sta aggravando i problemi socio-economici già presenti, e rischia di allontanare in maniera sostanziale la regione dagli standard democratici occidentali. In Albania, per esempio, il premier socialista Edi Rama sembra non essere in grado di gestire al meglio questa fase della pandemia. Se qualche mese fa diceva ai “grandi ricchi” del suo paese di vendere i propri yacht e le proprie ville per attenuare gli effetti del Covid-19, quando loro gli chiedevano aiuti economici, in realtà un’inchiesta del Balkan Investigative Network (BIRN) ha svelato come la maggior parte delle risorse stanziate dal governo albanese per contrastare la crisi sia finita nelle tasche di una decina fra le più grosse aziende del paese.
Anche gli aiuti alimentari alle famiglie più povere, che il premier aveva detto essere arrivati a 400mila persone, sono stati gonfiati rispetto alla realtà. Sarebbero infatti meno della metà le persone che hanno ricevuto aiuto, peraltro principalmente tramite donazioni e non direttamente attraverso lo Stato.
La facilità nel diffondere notizie false e fuorvianti è un’altra caratteristica peculiare della pandemia nei Balcani. La preoccupante novità è però che ciò sia avvenuto per mano degli stessi governi. Nella popolazione si è creato un falso senso di sicurezza, e tanti hanno adottato comportamenti poco attenti. La poca coerenza delle misure di contenimento, con quarantene di pochi giorni, poi, combinata con misure che rischiano di violare diritti come la privacy, non sono state di aiuto.
Nei Balcani le teorie del complotto trovano storicamente terreno fertile. Secondo lo studioso Florian Bieber, nonostante l’emergenza sanitaria avrebbe in teoria dovuto chiamare ad un approccio scientifico, nella regione la tendenza alle radicalizzazioni politiche, la consapevolezza di non potersi esprimere liberamente e la fiducia riposta unicamente nelle istituzioni più gerarchiche e conservatrici della società, come la chiesa, le forze di polizia e quelle militari, hanno fatto sì che teorie cospirazioniste e fake news dilagassero.
I filoni sono diversi. C’è ancora chi crede che il virus sia stato creato in laboratorio in Cina o negli Stati Uniti e chi pensa che ad essere responsabili della diffusione del contagio siano particolari gruppi, come gli ebrei o i musulmani. La teoria più quotata è che il responsabile della pandemia sia Bill Gates, il quale segretamente punterebbe a impiantare microchip nelle persone attraverso un vaccino. Fantasiosa anche l’idea che le reti 5G contribuiscano a diffondere la malattia.
In Macedonia del Nord è stata la stessa Chiesa ortodossa a rifiutarsi di interrompere le cerimonie religiose, contribuendo alla diffusione del contagio. In Serbia, invece, il proprietario della principale emittente televisiva del paese si è dedicato a promuovere un trattamento “all’ozono” come misura di prevenzione. Addirittura un esperto di malattie respiratorie e membro della “task force” serba per l’emergenza, Branimir Nestorovic, da settimane sostiene che i serbi siano geneticamente più protetti dal virus rispetto ad altri.
«Le teorie del complotto possono essere pericolose se minano le misure dei governi per contenere la diffusione della pandemia, e sono velenose per le democrazie, perché si basano sulla scarsa fiducia e un senso di impotenza, rafforzandoli», scrive l’esperto. «Più che la valorizzazione della competenza, la pandemia potrebbe facilmente rinsaldare una politica della paura, della paranoia e della sfiducia a scapito della democrazia, anche nei Balcani occidentali».
Infine, una delle conseguenze più a lungo termine della pandemia è l’impatto economico. Gli olandesi hanno iniziato ad andarsene dalla Croazia, dopo che i Paesi Bassi l’hanno inserita nella loro “lista nera”. La stagione turistica è compromessa, un fatto grave in un paese in cui il turismo genera il 20% del Pil.
Se l’anno scorso la Croazia accoglieva più di 20mila turisti – tedeschi, sloveni e cechi ai primi posti – a luglio ne sono arrivati solo 260mila. Talmente preziosi che, quando a inizio mese è arrivato da Praga a Fiume il primo treno carico di 500 cechi, ad accoglierli c’erano niente meno che il ministro del turismo e il sindaco della città.
Anche in Bosnia le principali attrazioni, la città di Mostar con il suo famoso ponte, Medjugorje e Sarajevo, si sono svuotate. Nemmeno durante la guerra del ’94-95 i pellegrinaggi a Medjugorje si erano interrotti, il che dà la misura della gravità della situazione. Infine, la ripresa delle migrazioni dalla Grecia per proseguire lungo la rotta balcanica costituisce l’ennesimo fronte di rischio, viste le condizioni in cui i profughi vivono e si spostano.
Gli aiuti arrivati dall’Europa (38 milioni) per far fronte a tutto questo sono un segnale importante, ma potrebbe non bastare. Le previsioni economiche dicono che la regione nel complesso subirà nel 2020 una recessione compresa fra il 3 e il 9%, per riprendersi nel 2021. Secondo l’esperto dell’Ispi Giorgio Fruscione, però, a rimanere malata nei Balcani continuerà ad essere la democrazia, preda degli interessi geopolitici che vedono in prima fila gli Stati Uniti, la Cina e la Turchia.