Self-made chefEssere cuoco italiano a New York quando due terzi dei ristoranti potrebbero chiudere

Ripartire dall’aperitivo, un barattolo di pomodoro e il 25% di indoor dining: le storie parallele di Michele Casadei Massari e Riccardo Orfino, gli chef-imprenditori che amano l’Italia ma hanno sposato l’America

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Lo scorso 3 settembre la State Restaurant Association Survey ha denunciato che senza un pacchetto completo di aiuti specifici per i ristoranti di New York, il 63,6% potrebbe chiudere entro la fine dell’anno. Questa indagine condotta su 1042 locali ha dipinto un quadro abbastanza ombroso: i dati ufficiali si rivelano sconfortanti, sottotraccia di un sentiment di forte preoccupazione per il futuro. C’è anche una fetta che racconta una New York diversa nel post Covid-19, uscita piegata ma non spezzata. Fa un po’ sorridere, però, che a darne testimonianza siano due italiani, popolazione per antonomasia definita tra le più pessimiste al mondo come si può leggere in un sondaggio Ipsos realizzato per il Corriere della Sera. Forse, non vale per i cittadini che vivono all’estero e a provarlo sono due personalità del mondo enogastronomico migrate a New York lo scorso decennio con in mano uno dei primi iPhone e l’idea di restare Oltreoceano, ancora prima di partire.

Il romagnolo Michele Casadei Massari ha disegnato il suo sogno americano su una spiaggia della Sardegna mentre era in pausa pranzo con in braccio suo figlia di appena pochi mesi. «Ho investito sulla mia idea. Mandai una lettera a New York con la proposta di piazzare uno stand di cappuccini e panini a Union Square. Dopo 12 giorni ricevetti risposta e con soli 29 dollari mi comprai la licenzia». Michele aveva organizzato la valigia per un mese ma da quel 4 ottobre 2009, una data non casuale perché coincide con l’anniversario di matrimonio dei suoi genitori e la festa di San Petronio, protettore di Bologna, sono trascorsi più di 11 anni e lui nel frattempo ha preso residenza qui. Un’impresa unica ed eccezionale, per citare il suo cantante preferito, su cui ha costruito la propria fortuna. In uno degli inverni più freddi della storia di New York degli ultimi cinquant’anni, Michele si ritrovò nel Green Market della Grande Mela in pieno periodo natalizio a servire oltre di 2000 caffè al giorno. Il suo regalo di Natale furono le 33 mila e-mail trovate appese dietro il bugigattolo ambulante, un copioso database convertito nel tempo in clientela affezionata. Dopo è arrivato Piccolo Cafe, il primo dei quattro aperti da Michele, e nel 2017 anche Lucciola, autentico ristorante italiano ispirato a Pupi Avati con una selezionata tavola di prodotti DOCG. Queste per Michele erano mura solide dove lui si sentiva al sicuro. Tutte le certezze, però, sono venute meno durante il lockdown al punto che due dei Piccolo Cafe non hanno mai più riaperto. «Lo Stato ha risposto prontamente con dei piani di aiuti finanziari e abbiamo avuto un’opportunità pazzesca: mettere per la prima volta i coperti su strada. Purtroppo, questa estate la situazione è precipitata e una compagine di persone affamata e rabbiosa ha scatenato una rivolta trasformando New York in un campo di battaglia. Occupazioni, distruzioni, delinquenza. Casi di disordini civili che ci allontanano dalla ricerca di un senso di tranquillità».

Michele è stato tra i primi a riaprire portando in auge il concetto tutto italiano dell’aperitivo che spesso sfocia in cena, una pausa fresca e frizzante sorseggiando Spritz e grandi vini italiani da accompagnare obbligatoriamente al cibo se si beve su strada. Un rendez-vous ormai fisso per i newyorkesi che «in casa non vogliono stare» e con cui Michele ha sfoggiato tutto il savoir-faire italiano: pinsa a lunga lievitazione con tartufo e stracciatella di bufala DOP, tre stagionature del Parmigiano Reggiano e le immancabili polpettine. Tra le novità delle ultime settimane, dal prossimo 30 settembre il governatore Cuomo ha esteso il consumo dei pasti anche al coperto con una capacità limitata al 25% e tavoli posizionati a sei piedi di distanza, corrispondenti a quasi 2 metri. «In ordine di tempo, New York è tra le ultime città degli Stati Uniti a reintrodurre l’indoor. Può sembrare una grande notizia ma questa percentuale ha suscitato tante polemiche. Avendo anche studiato medicina ho diverse perplessità e paura di essere a rischio. Applicherò più normative di quelle necessarie: credo che il ricambio dell’aria sia fondamentale».

 

A rimboccarsi le maniche anche Riccardo Orfino, altro italiano di origine padovana volato negli USA qualche anno fa per rappresentare il nostro Paese con l’apertura di Eataly Downtown. Voluto da Nicola Farinetti, figlio di Oscar, ha lavorato per due anni nel negozio che promuove gli “alti cibi” italiani finché non è entrato in società con Emanuele Nigro e insieme hanno aperto Osteria 57. Un nome altisonante per Greenwich Village, il quartiere degli artisti di New York, un incubatore di tendenze che a primo impatto ricorda i profili di alcune città europee. Per chi è pratico di Manhattan, il locale sta sulla 10° strada tra la Quinta e la Sesta Avenue. «Non c’è alcuna situazione difficile a New York. Calcolando che solo lo 0,6% risulta ancora positivo al virus la situazione è sotto controllo. Quello che non è chiaro è la linea di governo sull’indoor dining, ovvero la concessione per mangiare in spazi chiusi». Per Riccardo questo ha significato riuscire inizialmente a replicare le circa 50 sedute interne anche nello spazio esterno, «una buona azione da parte del governo di New York che ha permesso ai ristoranti non solo di sfruttare i parcheggi ma anche di abbellire il fuori della propria attività con erba sintetica e fiori, facendo addirittura diventare cool questa occupazione suolo pubblico». Con la ripresa del consumo di indoor dining, Riccardo riuscirà a lavorare con 15 coperti, una cifra abbastanza irrisoria per chi come lui triplica ogni sera questi numeri. E così sarà fino al 1 novembre quando, se non ci fosse un incremento di contagi, la percentuale di posti all’interno potrebbe aumentare al 50%. Senza dimenticare l’arrivo prossimo del freddo: «per le possibilità di Osteria 57 questi numeri non sono assolutamente sufficienti. Non appena le temperature precipiteranno la gente non vorrà più mangiare all’aperto e, se le cose non cambiano, non sono nelle condizioni di soddisfare una domanda che fortunatamente c’è. A me tutto questo è sembrato una mossa assolutamente politica».

Da inizio marzo alla riapertura, Osteria 57 ha lavorato bene con il delivery implementando un servizio che, a regime, non c’era mai il tempo di potenziare per via del ristorante sempre pieno. Con l’incremento degli ordini si sono organizzati anche loro per investire su questo business perfezionando un’offerta da comfort food adatta al trasporto. «In un momento negativo per tutti, noi abbiamo visto le cose positive che c’erano da fare. Oltre a lanciare un brand di grocery store mettendo a scaffale prodotti di nicchia quali pasta, salse e pesti, abbiamo studiato le abitudini casalinghe degli americani, ovvero cosa acquistavano e consumavano a casa: tra i piatti più amati, su tutti, il pomodoro. Stiamo per lanciare sul mercato Blissed Tomatoes, una salsa rossa prodotta con San Marzano dell’agro sarnese-nocerino, olio extra vergine di oliva e basilico». Anche Riccardo si è lasciato dominare dal concetto di abitudine ma il suo non è un esercizio di stile a tema pop-art: per lui la ‘nuova’ normalità inizia da un semplice spaghetto al pomodoro.

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