Così non può funzionareÈ l’ultima occasione: il coronavirus ci impone di scegliere il modello di sviluppo che vogliamo

Il ritorno alla normalità non solo sembra molto lontano, ma è anche poco auspicabile. Come scrive Rossano Ercolini in “Il bivio” (Baldini + Castoldi) il mondo da tempo va incontro a una catastrofe ecologica. Solo cambiando il nostro stile di vita potremo sperare di evitare il peggio

JORGE GUERRERO / AFP

Saper capire i limiti e gli errori che la sigla Covid-19 ci ha dato la possibilità di evidenziare equivale a cogliere al volo l’occasione di trasformare in opportunità le innegabili difficoltà legate a questa epidemia.

Spesso, nelle etimologie delle parole che usiamo inconsapevolmente, possiamo riscoprire la saggezza del linguaggio: la parola “crisi” in greco antico significa “nuovo inizio”. Cosa c’è di più attuale, in questa fase post-Covid, della possibilità di accogliere la sfida di vedere il nostro modello di civiltà lineare (che va dalla estrazione dei materiali, alla produzione, al loro uso e smaltimento in un circolo vizioso senza fine) e consumista riflesso nello specchio e di constatare con evidenza indiscutibile, per via di queste circostanze, che cosa ci separa da una civiltà pacificata con se stessa e con la natura?

Se sprecassimo questa occasione, se sbagliassimo la strada da imboccare, nessuno potrebbe definirsi innocente. E per favore non si chiami ancora in causa il disagio economico e sociale per far finta di nulla e sostenere un ritorno al passato in una riproposizione grottesca di una sorta di Congresso di Vienna della restaurazione sviluppista!

Sbagliare è umano, perseverare è diabolico nel senso di definire “buono” ciò che è all’opposto il “peggio” di ciò che possa essere proposto. Trattasi dell’uso e dell’abuso della menzogna. E il futuro, lo sappiamo, non può basarsi sull’uso della menzogna, tanto più grave perché nascosta a se stessi!

È da ritenersi normale il fatto di aver trasformato gli oceani e i mari in vere e proprie discariche, dove ogni anno finiscono non meno di 9 milioni di tonnellate di plastica?

È normale prevedere, come ha fatto in modo inconfutabile la Fondazione Ellen MacArthur, che, mantenendo questo ritmo, nel 2050 nei mari ci sarà più plastica che creature marine? Possiamo giudicare sana la mente di chi mette in discussione la negatività palese di questa “minaccia” espressa dalla neutralità dei numeri?

E questa volta non si chiami in gioco la drammaticità dei licenziamenti o la difficoltà della “transizione”. Ricorrere a questi argomenti significa adottare modalità di rimozione del problema che chiede, invece, di essere risolto garantendo tanto il lavoro quanto la qualità ambientale. Dovremmo piuttosto chiederci come affrontare questa sfida positivamente riducendone i traumi, e non di come mettere la testa sotto la sabbia per non guardare in faccia la realtà!

E ancora, è da considerarsi normale il fatto di avere un modello produttivo lineare basato sullo sperpero di risorse esauribili, il quale non ha i numeri per essere alimentato, visto che, se tutti consumassero come noi in Europa e soprattutto come negli Stati Uniti, occorrerebbero altri tre o quattro pianeti, cosa ormai conclamata dalla neutrale scienza della valutazione dell’impronta ecologica?

Anche dal punto di vista delle multinazionali più estremiste, non sembra aver alcun senso continuare a pretendere di “vendere i ghiaccioli ai pinguini” o di riempire un mercato già ampiamente saturo di automobili a benzina, mentre, tra l’altro, l’atmosfera ribolle di co2.

Forse recuperare un po’ di buon senso, prudenza e pudore non è da considerarsi più un “tabù ideologico” in un “mercato senza freni”, ma come l’indispensabile e pragmatico punto di equilibrio per affrontare con concreta competenza la sfida della inevitabile transizione ecologica.

La normalità consiste nel far pace con la natura, nel fare un passo indietro rispetto a un’epoca in cui l’uomo ha assunto il dominio sulla natura, preferendo invece uno scenario in cui l’uomo, ritrovato se stesso, possa giocare il ruolo, più umile ma più appagante, di custode del pianeta. La portata della sfida è questa. Tutto il resto è rumore per distogliere dall’unica direzione possibile.

Ma dal rumore che si sente intorno, dai pettegolezzi ammantati di urgenza e di emergenza, dalle priorità gridate a gran voce dal megafono della propaganda di turno ricaviamo solo questa lezione: che imboccare la strada giusta non è automatico né facile, dipenderà da ognuno di noi e dal nostro senso di responsabilità nell’essere all’altezza di questa impresa. Dipende da quanto sapremo essere positivi e propositivi, visionari e pragmatici, profondi ma non noiosi, anzi…divertenti e attraenti!

Dalla fantascienza a tanta scienza: da dove ripartire. Abbiamo almeno in parte già detto dello stupore di osservare, dai nostri rifugi, città spettrali ma bellissime, silenti e vuote, finalmente ripulite da traffico e inquinamento.

Abbiamo visto in città animali che non capita molto spesso di incontrare nemmeno nel bosco, come il tasso che se ne andava a passeggio in una via del centro storico di Firenze. Abbiamo visto fiumi e canali puliti, e percepito un senso civico di comunità e di empatia che sembravano scomparsi nel sentire diffuso delle persone, soffocati nel recentissimo passato da un’aggressività rancorosa verso l’altro e verso i “meno fortunati”.

Il paesaggio urbano che è andato in scena sembrava quello di un film di fantascienza, superava gli artifici narrativi della fiction. L’effetto collaterale del distanziamento sociale è stato ciò che, per alcuni mesi, quasi tre, ha caratterizzato i nostri vissuti e le nostre percezioni sensoriali, emotive, razionali. Sta a noi, adesso, dimostrare se abbiamo imparato qualcosa da questa storia oppure se preferiamo rimuovere tutto, nascondendo a noi stessi la verità radicale che abbiamo potuto saggiare.

Giocando con le parole, è arrivato il momento di dimostrare di saper trasformare la fantascienza, a cui abbiamo nostro malgrado assistito in un contesto spesso tristissimo, in “tanta scienza”: acquisendo una nuova consapevolezza antropologica e culturale da cui ripartire. Da qui il titolo di questo mio scritto: “Il bivio”.

Il nostro è un mondo che ha di fronte a sé due strade. E in questo consiste una sfida senza precedenti: interpretare i mesi di lockdown come una sorta di Ground Zero su cui ricostruire “un nuovo paesaggio urbano e sociale” che tenga conto dei messaggi che la natura ci ha inviato oppure ricostruire dal punto zero lo stesso edificio di prima della crisi, malato e in stolta competizione con la salute e con gli equilibri naturali?

La portata della scelta è epocale e forse richiama il grande scontro che ci fu nel passaggio tra età Paleolitica e Neolitica e che portò l’“orda primordiale” nomade dei cacciatori-raccoglitori a dare vita gradualmente alle prime civiltà agricole e stanziali.

Si potrebbe discutere a lungo in proposito e con esiti disorientanti, tuttavia noi abbiamo bisogno di certezze. E una certezza ce l’abbiamo: non c’è una terza via. A noi barrare la casella giusta.

Siamo entrati in piena crisi Covid-19 sull’onda delle grandi manifestazioni della generazione di Greta Thunberg e delle agghiaccianti immagini degli incendi apocalittici in Amazzonia e in Australia.

Già l’opinione pubblica mondiale stava accogliendo il messaggio dei movimenti ambientalisti, preoccupati dal riscaldamento globale e dalla insostenibilità della cultura dell’usa e getta, responsabile tra l’altro di aver trasformato gli oceani in una discarica di plastica e di microplastiche, che vengono ironicamente restituite anche al mittente.

Come? Attraverso la catena alimentare: i cibi, sempre più farciti di pezzettini polimerici sminuzzati dal gioco delle correnti marine, ci vengono serviti nel piatto. Addirittura, il governo del nostro vecchio continente, l’Europa, ha assunto decisioni drastiche nei confronti di questa sfida cominciando finalmente a passare dalle parole agli stanziamenti miliardari del Green Deal, che ha l’obiettivo di innescare un processo reale di Transizione Ecologica.

Poi, la scena del circo mediatico mondiale è stata interamente occupata dalla pandemia con il suo carico di dolore e strazio per i morti e di ancestrale paura, che ha fatto ritornare attuali almeno qui da noi in Italia le meravigliose pagine del Manzoni dei “Promessi Sposi” dedicate alla peste, complice, ovviamente, lo scenario lombardo dove più forte ha picchiato la furia del virus.

Ma man mano che si è usciti dal bunker della quarantena e dei confinamenti, a dispetto della narrazione dell’auspicato “ritorno alla normalità”, ci si è resi conto che questi temi non solo continuano a battere alla nostra porta per la loro enormità, di modo che anche un sordo dovrebbe tenerne conto, ma sono proprio i disastri ambientali all’origine di questa pandemia che molti osservatori a partire dalla organizzazione delle Nazioni Unite (Onu) e dell’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) ritengono non ancora debellata ma destinata a ripetersi magari attraverso altri fenomeni virali come già in parte avvenuto con Ebola, Sars, Mers e altre malattie infettive la cui responsabilità dei casi viene attribuita almeno per il 75 per cento a origine animale.

da “Il bivio. Manifesto per la rivoluzione ecologica”, di Rossano Ercolini, Baldini + Castoldi, 2020

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