Dopo il revival del nazionalismo novecentesco ci tocca quello dell’Italia preunitaria, che torna a farsi carne, ossa e politica nella figura dei Governatori-Rais. Sono loro i padroni dello stato d’eccezione, loro i decisori finali, loro i generali a cui deve telefonare il Quirinale per chiedere una tregua, loro la controparte inamovibile del governo centrale e quindi le star di ogni titolo sul Covid, di ogni talkshow televisivo, oltreché dell’infinita contrattazione sulle misure da prendere per arginare il contagio.
Vincenzo De Luca, Giovanni Toti, Attilio Fontana (ma non solo) sono i Piccoli Trump della fase due dell’epidemia, quelli che possono permettersi la battuta irridente contro i vecchi, l’insulto ai virologi, il sarcasmo sulle ragazzine che vorrebbero andare a scuola, insieme alle gaffe più estreme sul virus, dai cinesi che mangiano topi vivi e le zeppole al Coronavirus della Fase Uno fino ai video contro “Allouìn” della Fase Due.
Se Matteo Salvini e Giorgia Meloni hanno socchiuso la loro fase trumpiana, rinunciando all’iperbole e all’esibizione sconnessa collegata al sovranismo aggressivo della prima ora – citofonate a presunti drogati, gogne social per gli avversari, inviti a bombardare i barconi – i governatori sono appena all’inizio. Hanno potere, non solo mediatico. Hanno forza di interdizione, hanno ambizioni. Sanno che in questa circostanza impugnano il coltello dalla parte del manico, ove il coltello è la potestà quasi assoluta su ogni scelta sanitaria.
I Piccoli Trump dell’emergenza rovesciano ogni giorno la frittata dell’allarme Coronavirus, e ci riescono benissimo. Dovrebbero spiegarci perché i tracciamenti non funzionano, che diavolo è successo alla catena dei test – sette giorni in media per avere i risultati – o come mai il meccanismo del pronto soccorso si è inceppato quasi ovunque, e invece eccoli lì, in televisione, a dirci a che ora è meglio chiudere i negozi e i centri commerciali e a tuonare sull’inopportunità di bloccare le zone rosse più a rischio: un provvedimento che quasi tutta Europa ha preso e solo da noi sembra un’inaudita provocazione.
Ieri uno dei professori più ascoltati dell’emergenza, Andrea Crisanti, ha avvisato il governo. Attenti a decretare lockdown automatici sulla base dei numeri di ospedalizzati o di altri parametri indicati dalle autorità regionali: i Governatori sono pronti a tutto, anche a truccare i dati epidemiologici pur di evitare la chiusura, che dall’alto dei loro ego ipertrofici percepiscono come un ingiusto castigo. «Si tratta di dati facilmente manipolabili e a livello regionale per qualche settimana si potrebbe decidere di ricoverare il meno possibile sulla pelle dei pazienti», dice il microbiologo.
Magari Crisanti esagera, ma il dubbio viene ed è perfettamente coerente col modello trumpista inconsciamente adottato dai nostri Rais, che fin dall’inizio ha privilegiato le ragioni del lavoro e dell’economia rispetto a quelle della salute collettiva. Quando Donald si gioca l’ultimo pezzo di campagna elettorale promettendo di licenziare il virologo-in-chief Anthony Fauci non fa che dare voce al pensiero segreto di molti suoi emuli in scala minore: l’emergenza è sopravvalutata, o addirittura non c’è, e anche se ci fosse bisognerebbe negarla in nome del Pil.
Non osiamo immaginare cosa sarebbe accaduto, cosa accadrebbe in questi giorni, se i Governatori avessero vinto la battaglia dell’autonomia, arrogandosi poteri assoluti oltre che sulla sanità anche sulle tasse, sulla scuola, sui beni culturali, persino sulla politica estera, secondo la traccia dei due referendum indetti in Veneto e Lombardia tre anni fa (e appoggiati da destra e sinistra col medesimo entusiasmo). Ma magari quel pensiero, incrociato col disastro di queste giornate, può aiutare a capire l’errore, a ravvedersi, a fermare la marcia del gambero della nostra politica prima che scivoli ulteriormente indietro nella storia e che, sull’onda delle aspirazioni di tanti piccoli Trump dei territori, ci riporti all’età dei ducati e delle signorie.