Il fallimento delle tre TIl governo si accorge solo ora che le Regioni non si sono attrezzate a dovere per il tracciamento dei contagi

Il tracciamento non va: non si sa quanti siano davvero gli addetti nei dipartimenti di prevenzione e solo nell’ultima settimana è stato stabilito l’obbligo per i medici di inserire i dati dei positivi nella app Immuni. Ma ormai solo un caso su quattro viene rilevato con il tracing

Kenzo TRIBOUILLARD / AFP

Testare, tracciare e trattare. Alla strategia “delle tre T”, annunciata dal governo prima dell’estate per combattere il virus, è saltata del tutto una T: quella del tracciamento dei contatti dei positivi. Secondo l’ultimo monitoraggio pubblicato dall’Istituto superiore di sanità, soltanto un caso su quattro viene ormai rilevato attraverso il contact tracing, mentre il 31,7% dei casi è diagnosticato con la comparsa dei sintomi. Quando ormai il contagiato è andato sui mezzi pubblici, a scuola, al lavoro, al bar, infettando altre persone.

La scorsa settimana, per la prima volta, i casi registrati con la comparsa dei sintomi hanno superato quelli identificati con il contact tracing. «Il carico di lavoro non è più sostenibile sui servizi sanitari territoriali con evidenza di impossibilità di tracciare in modo completo le catene di trasmissione», spiegano dal ministero della Salute. «L’aumento di focolai e di casi non associati a catene di trasmissione evidenzia la criticità nell’impegno dei servizi territoriali (Dipartimenti di Prevenzione) per far sì che i focolai presenti siano prontamente identificati e indagati».

Il tappo è saltato, insomma. E al ministero della Salute sembrano essersi accorti solo ora – a sette mesi dall’inizio del lockdown e con la seconda ondata ormai in corso – della necessità di «rafforzamento dei servizi territoriali, attraverso un coinvolgimento straordinario di risorse professionali di supporto e anche attraverso l’utilizzo di strumenti tecnologici come la “app” Immuni, nelle attività di diagnosi e ricerca dei contatti».

Il 24 ottobre, 24 ore prima del dpcm che ha imposto il semi lockdown, la Protezione Civile è corsa ai ripari con un bando, aperto anche agli studenti del terzo anno di infermieristica, per selezionare 2mila addetti alla gestione del tracciamento dei contatti. In 48 ore sono arrivate quasi 49mila domande. Mentre le Regioni, con il contact tracing ormai fuori controllo, in una lettera inviata a Conte hanno chiesto di ridurre il carico di lavoro delle Asl testando solo i pazienti sintomatici. Immediato il no del governo: la logica del tracciamento è individuare subito anche gli asintomatici per evitare che diffondano il virus.

Azioni tardive per mettere una toppa a quel sistema di tracciamento umano, che avrebbe dovuto lavorare a braccetto con la app Immuni, e che invece non è mai decollato. Perché se Immuni – dopo una lunga attesa – a fine maggio è arrivata e finora è stata scaricata da poco più di 9 milioni di italiani, a sette mesi dall’inizio della pandemia non si sa invece quanti siano davvero gli esperti presenti nelle Asl che dovrebbero tracciare manualmente i contatti dei positivi, inserire i dati nella app e gestire gli alert, telefonando immediatamente ai potenziali contagiati.

Con un decreto del 30 aprile, il ministero della Salute aveva stabilito che «la ricerca e la gestione dei contatti, per essere condotta in modo efficace, deve prevedere un adeguato numero di risorse umane» all’interno dei Dipartimenti di prevenzione.

Sulla base delle raccomandazioni del Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (Ecdc), «per garantire in modo ottimale questa attività essenziale» – spiegava la circolare di Speranza inviata alle Regioni – dovrebbero essere messe a disposizione a livello territoriale «non meno di una persona ogni diecimila abitanti». Che sulla popolazione italiana significava avere seimila operatori dedicati solo al contact tracing.

Un esercito di medici igienisti, assistenti sanitari, tecnici e amministrativi, che però i Dipartimenti di prevenzione delle Asl non avevano. A giugno, in queste strutture lavoravano poco meno di 9mila operatori, già in affanno tra le attività di sanità animale, i vaccini, l’igiene degli alimenti e l’antinfortunistica. Prima ancora della pandemia, secondo le stime della Società italiana di igiene e medicina preventiva e della Fondazione Smith Kline, nei dipartimenti di prevenzione mancavano almeno 5mila addetti su tutti i fronti.

Durante il lockdown, con molte delle attività produttive ferme, gli addetti degli altri dipartimenti hanno dato una mano ai reparti del Sisp, il Servizio di igiene e sanità pubblica adibito al tracciamento delle malattie infettive. Veterinari, infermieri, medici dei servizi dedicati all’alimentazione sono stati dislocati nel monitoraggio dei pazienti e dei contatti.

Con il ritorno alla normalità, però, il servizio di tracing non ha potuto contare più sui rinforzi. Proprio quando il tracciamento è diventato invece più complicato. Perché se restando a casa si dovevano tracciare tre o quattro contatti per ogni contagiato, con la fine del lockdown e la riapertura di scuole, uffici e palestre, si arriva anche a venti-trenta persone da rintracciare per ogni positivo.

«Il contact tracing si fa con le persone, le tecnologie ci sono di aiuto ma non ci sostituiscono. Ci servono numeri e professionalità», ci aveva spiegato a maggio Enrico Di Rosa, coordinatore del collegio nazionale della Società italiana di igiene e medicina preventiva. Bisognava assumere, insomma.

Qualche Asl è corsa ai ripari. A Milano, per esempio, i contact tracer passeranno da 100 a 150, il triplo dall’inizio della pandemia. «Da 100 saremo 150, ma non possiamo svuotare il mare con il secchiello», ha raccontato Marino Faccini, responsabile della Struttura profilassi malattie infettive dell’Ats Milano, a capo della squadra dei tracer. Diverse assunzioni sono state fatte anche in Piemonte, Veneto ed Emilia Romagna. Ma è difficile dire effettivamente quante persone oggi in Italia sono dedicate al solo contact tracing. Di questi dati, non c’è traccia. All’Iss non ce li hanno, dicono. Al ministero della Salute neanche.

A giugno, l’Istituto superiore di sanità ha pubblicato una guida con le fasi chiave del processo di tracciamento, mettendo a disposizione una serie di moduli standard per la raccolta dei dati e un corso di formazione a distanza dal titolo “Emergenza epidemiologica Covid-19: elementi per il contact tracing”. Gli iscritti hanno raggiunto la soglia dei 4mila. Poi, è arrivata l’estate ed è calato il silenzio.

Eppure nello stesso decreto del 30 aprile, il ministero della Salute stabiliva che nella attività di monitoraggio della fase due dovesse essere tenuta sotto controllo anche la «Resilienza dei servizi sanitari preposti nel caso di una recrudescenza dell’epidemia», fornendo i dati settimanali in merito agli «indicatori di processo sulla capacità di accertamento diagnostico, indagine e gestione dei contatti» con «numero, tipologia di figure professionali e tempo/persona dedicate in ciascun servizio territoriale al contact-tracing».

Se le regioni abbiano o meno aggiornato il governo sullo stato dei propri dipartimenti di prevenzione da maggio in poi è difficile dirlo. Ma al ministero della Salute pare abbiano scoperto la carenza di personale solo quando la seconda ondata era ormai esplosa.

Secondo i dati riportati dal Sole 24 Ore, aggiornati al 4 ottobre, le risorse nei dipartimenti di prevenzione da giugno a oggi sono aumentate in tutta Italia di sole 275 unità. Troppo poche per preparare quella che sarebbe dovuta essere la prima linea nella lotta alla prevedibile seconda ondata del Covid. In testa c’è la Basilicata, che conta 7,6 addetti nei dipartimenti ogni 10mila abitanti. Subito dopo, a grande distanza, il Veneto con 2,8. Il Lazio è fermo a 1,8, la Lombardia a 1,3. In coda Calabria, Abruzzo e Friuli Venezia Giulia.

In queste ore, Regioni e governo si rimpallano le responsabilità sul fallimento del tracciamento, agitando le maglie larghe del Titolo V della Costituzione mentre gli ospedali si riempiono di positivi. «La mappatura dei contagi è saltata perché non sono stati potenziati adeguatamente i dipartimenti di prevenzione di alcune regioni, che non hanno assunto il personale che serviva», ha accusato il consigliere del ministro della Salute Walter Ricciardi. «Come ministero abbiamo messo a disposizione i fondi necessari, ma sono le regioni poi che devono usarli e molte non lo hanno fatto».

Nel decreto rilancio di maggio, la parola tracciamento in realtà si trovava una sola volta all’articolo 1 sul potenziamento dell’assistenza territoriale, con un generico finanziamento di 250 milioni di euro per la sanità da spartire tra le regioni. Nessuno stanziamento dedicato al tracing nemmeno nel decreto agosto.

E se dal ministero della Salute già il 29 maggio si impartivano le istruzioni per registrare i dati di Immuni, la app poi non è stata neanche inserita tra le procedure di monitoraggio della pandemia. Nel decreto del 30 aprile, non si fa neanche cenno alla applicazione. Al contrario di quello che avevano indicato invece i membri la task force incaricata dal ministero dell’Innovazione di trovare soluzioni digitali contro la diffusione dell’epidemia, secondo cui le tecnologie di contact tracing digitale avrebbero aiutato a ridurre i tempi medi di circa 12 ore necessari per il tracciamento manuale.

Eppure il tracciamento resta ancora oggi l’unica arma contro il virus. Si potrà fare anche un altro lockdown integrale per far calare i contagi, ma una volta tornati per strada, senza il contact tracing, la curva tornerà a salire. E i software devono muoversi insieme al lavoro umano.

Jason Bay, il capoprogetto della app di Singapore che ha ispirato Immuni, ha dichiarato che nessun sistema di tracciamento digitale può sostituire quello manuale. E i Paesi asiatici assurti a modello, prima ancora delle app, non a caso si sono dotati di migliaia di tracciatori umani.

La Lombardia il 22 ottobre ha pubblicato un bando per la ricerca di personale. E si cercano rinforzi nel tracciamento dal Friuli alla Puglia. Ma probabilmente non basteranno, a questo punto, neanche le 2mila assunzioni previste dalla Protezione civile per rafforzare il fronte anti-contagio. In una città come Roma si contano solo un centinaio di assistenti sanitari, e non tutti dedicati al contact tracing. Che poi è lo stesso numero di quelli Bologna, che però ha una popolazione di sette volte più piccola.

Immuni non ha avuto un gran successo tra gli italiani, ma è anche vero che la mancanza del tracciamento umano l’ha praticamente condannata al fallimento. Senza tralasciare il fatto che molti utenti stanno segnalando di aver scoperto il contatto con un positivo solo aprendo la app sullo smartphone, senza aver ricevuto alcuna notifica.

Con una accelerazione dei download nelle ultime settimane, gli italiani che hanno scaricato Immuni sono circa 9,3 milioni, poco meno di un sesto della popolazione. Ma le segnalazioni di utenti positivi sono state finora solo 1.202, che hanno generato a loro volta 25.556 notifiche. Troppo poche rispetto agli utenti che l’hanno scaricata. È chiaro che qualcosa non ha funzionato. Fermo restando che il numero dei download da solo non dice quante persone effettivamente stiano usando la app, perché la app si può scaricare e poi disinstallare.

In ogni caso, Immuni da sola non sarebbe bastata. Quando un paziente viene trovato positivo, il medico dovrebbe collegarsi con il software della tessera sanitaria, ottenere un codice temporaneo e consegnarlo al paziente, che a sua volta dovrebbe caricarlo sulla app per attivare le notifiche di eventuali esposizioni. In questo ingranaggio, qualche rotella è saltata e con molta probabilità qualcuno non ha inserito i codici.

«È stato commesso un errore madornale da parte del ministero della Salute nel dare alle Asl, alle Ats e ai medici di base il compito di caricare i codici di Immuni sul server», ha spiegato a Rainews24 Luca Foresta, che con Bending Spoons ha sviluppato la app. «La maggioranza dei soggetti non è stata formata e preparata per fare questo. Il risultato è che oggi i positivi non sanno come comunicare e a chi comunicare il codice per poter far scattare tutto il meccanismo di Immuni».

Solo negli ultimi due dpcm, il governo ha reso obbligatoria la segnalazione a Immuni: «Al fine di rendere più efficace il contact tracing attraverso l’utilizzo dell’app Immuni, è fatto obbligo all’operatore sanitario del Dipartimento di prevenzione dell’azienda sanitaria locale, accedendo al sistema centrale di Immuni, di caricare il codice chiave in presenza di un caso di positività», si legge.

Il risultato è che in molte regioni, di fatto, in questi mesi si è ignorata del tutto l’esistenza della app. Con i medici di base che, come ha raccontato Foresta, in alcuni casi non sapevano nemmeno come inserire i dati sui contagiati per far partire le notifiche e avvisare chi era entrato in contatto con loro.

Da Luca Zaia a Nello Musumeci, diversi governatori hanno addirittura dichiarato senza problemi di non aver mai scaricato Immuni. Il Veneto ha cominciato a usarla solo qualche giorno fa. Anche perché la Regione – come spiegato in una nota – riteneva troppo stringente la definizione di “contatto stretto” di Immuni, ovvero il contatto con una persona rimasta a meno di due metri per almeno 15 minuti, che però era stata stabilita dal ministero della Salute.

Inutile, allora, la campagna di comunicazione “Scarica Immuni” lanciata dal governo e accompagnata dalla lettera accorata di Rocco Casalino ai direttori dei giornali, se poi nessuno ha inserito i dati dei positivi nel sistema.

Anche in questo caso, però, dal ministero della Salute non viene fornito alcuna cifra sul monitoraggio dell’uso della app nel corso degli ultimi mesi. Quelli in cui la seconda ondata avanzava, senza che nessuno sembrava accorgersene.

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