«Io riconosco loro, ma loro non riconoscono me».
Lo ripeteva spesso, Andrea Paternoster, l’uomo delle api.
Lui stupiva fin dal primo approccio. E proseguiva: «Un essere così inutilmente grosso, senza ali, e con quattro arti invece di sei… Che senso ho per loro? Nessuno».
L’essere così grosso, così diverso dalle sue amate api, se ne è andato per un brutto incidente d’auto, che l’ha allontanato dal mondo, in mezzo alla sua vita fatta di api. Loro, sempre al plurale, erano la sua vita, l’essenza condensata della sua storia, e lui le raccontava con una poesia e una freschezza che non poteva non conquistare chiunque lo incontrasse.
Mentre raccontava, lui che era un divulgatore instancabile, un artigiano sempre in preda al sacro fuoco della comunicazione, passava il coltello sul favo, lo accarezzava con la lama e ne ricavava un rettangolo perfetto che rivelava le cellette esagonali di cera, ricolme di nettare quasi incolore.
In sottofondo partiva “Ho visto Nina volare”, e al suono di questa meraviglia di De André si compiva la magia perfetta della sua narrazione. Incontrarlo aveva un travolgente sapore dolce che pervadeva i sensi e li coinvolgeva tutti. Ascoltarlo significava imparare tutto di questi insetti, comprendere quanto complessa è la struttura dell’alveare, e iniziare a pensare le api come singole componenti di un organismo più grande, dove ciascuna è una parte, ma sola non serve a nulla.
Capolavoro della natura, l’alveare è una monarchia illuminata, con tutte femmine e pochi maschi, utili solo al momento della fecondazione della regina, che incamera il liquido seminale di qualche fuco e lo conserva per quando sarà necessario.
Le altre? Lavorano, si chiamano operaie proprio per questo. E lavorano moltissimo, salvando dall’estinzione l’Universo con la loro instancabile danza di fiore in fiore. Fino a 16mila passaggi per creare un chilo di miele, senza mai posare le zampine a terra, ma volando e posandosi sulle corolle del fiore eletto.
Andrea non faceva altro che amarle, e raccogliere quello che loro creano, con un affetto e un’ammirazione che rasentava la devozione. Andrea coglieva la magia del loro volo, il significato profondo della loro esistenza: che è insignificante finché non scopriamo che senza di loro, in quattro anni il mondo non esisterebbe più. In questo il suo lavoro era fortemente politico, e la sua opera di evangelizzazione indispensabile.
Andrea produceva miele con il marchio Thun in Trentino Alto Adige, un’eccellenza assoluta per tutti i cultori del prodotto e per i tanti chef sedotti dalla sua passione. Qualche giorno fa ci aveva concesso un’intervista lunga, due ore di conversazione che stavamo condensando per cercare di spiegare anche a voi quanto fosse unico e speciale il suo lavoro, e il prodotto che ne derivava.
Le api erano il suo gregge, non uno strumento per fabbricare il miele, e lui era un pastore. L’apicoltura per Andrea Paternoster era la profonda conoscenza delle api, del cui linguaggio l’apicoltore si deve far interprete: una visione che parte da un rapporto, quello tra uomo e ape, antico quanto la storia, profondo, quasi mistico. Un aspetto filosofico che trova riscontro nella capacità sociale delle api, quasi umana, così come quasi umano è il loro linguaggio, un linguaggio gestuale che consente di comunicare anche tra individui appartenenti a specie diverse.
Tanto profondo era il rapporto con le sue api, quanto appassionato il suo impegnarsi nella produzione di miele, anzi di mieli, al plurale, e nella divulgazione della loro qualità. Plurale perché ogni miele è il racconto del rapporto tra ape e fiore. E come i fiori sono diversi per colore, profumo, aspetto, così anche i mieli, fotografia delle differenti varietà di fiori. Paternoster faceva di tutto per regalare a chi sceglieva il suo miele l’integrale freschezza che c’è nel calice del fiore, perché il miele è il prodotto del fiore. Non dell’ape, non dell’uomo.
Il suo sogno era che il miele venisse conosciuto, degustato e apprezzato come e quanto ora si fa con il vino. Il suo sogno era che si imparasse a distinguere e ad amare le infinite varietà dei mieli italiani. Il suo sogno era che un giorno, assaggiando il suo millefiori, qualcuno dicesse «Fantastico! C’è del tiglio!».
Dopo la sua morte, facciamo nostra la proposta di Massimiliano Tonelli, che ieri sera a pochi minuti dalla notizia ha scritto sul suo profilo Facebook, incitando a riflettere sul ruolo di Paternoster e a renderlo sempre di più un modello per tutti coloro che hanno a che fare con la trasformazione della natura in cibo: «La cosa più sensata potrebbe essere far sì che questo momento non sia solo tristezza. Certo, tanta tristezza, ma non solo. Forse lui non avrebbe voluto troppa mestizia e disperazione, avrebbe voluto piuttosto energia che era il suo tratto e la sua cifra. Energia. E allora questo evento annichilente, la morte di Andrea Paternoster, deve essere occasione per riflettere sulla sua pratica. Una pratica che traguarda cosa deve significare oggi (e domani) l’essere artigiano d’eccellenza in Italia. La sua capacità di innovare nel processo e nel prodotto, il suo mai sottrarsi alla comunicazione e alla divulgazione, la voglia continua – direi l’urgenza – di formare gli altri, la disponibilità a confrontarsi con artigiani, agricoltori, cuochi, pasticceri con un approccio orizzontale e sbalorditivamente costruttivo. Una evangelizzazione continua: per la prima volta un apicoltore diventa a ragion veduta un imprescindibile guru gastronomico, agricolo, perfino politico. L’empatia e il carisma spiccatissimo, coltivato, cercato oltre che spontaneo. L’intenzione sempre centrata di essere spiazzante. Prendere un prodotto ancestrale come il miele e trasformarne radicalmente la concezione presso i consumatori riscattandolo da anni di sciatterie e banalità è cosa epocale e di fatica sovrumana. La risposta migliore dunque è concentrarci su come comprendere al meglio l’esempio e dunque cogliere a pieno l’eredità di questo smisurato e incontenibile artigiano. Si possono spendere altre mille righe, ma chi ha avuto la sfortuna di non conoscerlo difficilmente può arrivare a comprendere del tutto l’immensità di questa perdita».