Parola d’ordine “riprogrammare”! Da mesi si oscilla tra chi preconizza un futuro diverso dal passato che abbiamo conosciuto e chi, invece, più ottimista, pensa che tutto tornerà come prima, anzi meglio.
Noi parliamo di ristorazione e, certamente, lo stato d’animo degli imprenditori di questo settore non può essere dei migliori dopo mesi di incertezza e di inesorabile perdita di fatturato, pertanto, leggere previsioni altalenanti può solo peggiorarne l’umore. Quindi? A chi credere? Come affrontare il futuro, immediato e, ancora più importante, a medio lungo termine?
Già, non è facile ipotizzare quali siano gli scenari, quale possa essere il comportamento di ciascuno di noi quando, finalmente, senza più restrizioni, si potrà riprendere lo stile di vita che avevamo prima. Tuttavia, bisogna provare a leggere alcuni segnali per capire come riprogrammare la propria offerta, come ripensare una strategia e le tattiche conseguenti.
Le indicazioni più banali sono quelle a breve termine, le più rischiose, perché, se è vero che le prime timide riaperture mostrano una forte propensione al consumo fuori casa, il pericolo è che sia un fuoco di paglia, che, dopo l’iniziale spinta, dovuta alla mancanza sofferta nei mesi scorsi, la curva delle presenze si abbassi, andando pericolosamente ad appiattirsi su di una domanda insufficiente.
Già solo per affrontare i primi mesi ci vuole molta flessibilità, sapendo programmare acquisti e personale in modo adeguato e proporzionale al servizio da offrire.
Poi ci sono segnali che potrebbero diventare strutturali, come, per esempio, ciò che succederà al cosiddetto “smart working”, meglio definito “remote working”. Qui la situazione è in evoluzione. Pensare che, una volta conclusa la fase di emergenza, anche a livello normativo, non è detto che lo stesso numero di persone che prima della pandemia di Covi19 svolgevano la propria mansione in ufficio tornerà in presenza. Anzi, molte aziende, per convenienza o per rispondere a nuove esigenze, emerse nel periodo da parte degli stessi lavoratori, hanno già scelto di proporre una modalità mista ai propri dipendenti, concedendo un certo numero di giornate di lavoro in remoto, ma anche, ove possibile, accogliendo la richiesta di alcuni lavoratori di operare sempre a distanza.
A questo uniamo tutta una serie di agenzie di consulenza del lavoro che stanno proponendo ruoli che sono già svolti solamente al di fuori delle aziende. Scriviamo così, perché non è nemmeno detto che si intenda per remote working lo svolgimento della giornata lavorativa a casa propria, così come in un eventuale abitazione diversa dalla propria. Ci sono addirittura luoghi che si propongono come mete per chi, lavorando con un computer, possa farlo da ovunque e, perché no, da un qualche paradiso terrestre? Questa modalità sta diventando una forma di marketing territoriale per borghi, così come per luoghi esotici, che propongono uno stile di vita slow dopo la giornata lavorativa cercando di attirare questa nuova forma di turismo professionale che potrebbe successivamente trasformarsi in nuova residenzialità che porta ricchezza a luoghi altrimenti meno vivaci ed emorragia di abitanti al luogo di origine.
Il lavoro, inoltre, può anche essere svolto in luoghi di ritrovo comune, è il cosiddetto co-working, determinando, anche in questo caso, un cambio di abitudini dei lavoratori, non solo un cambio di residenza. Tutto questo per sottolineare una tendenza che ogni ristoratore deve assolutamente considerare, soprattutto se opera nel centro di una grande città. Va messo in conto che, per un certo periodo, che può essere misurato in anni, la popolazione lavorativa sarà irrimediabilmente inferiore. Questo vale sia per chi ha scelto di emigrare altrove, in campagna, al mare, in montagna e da lì svolgere il proprio lavoro, sia per coloro, parliamo dei pendolari che vivono nel raggio di pochi chilometri dal luogo di lavoro e che ogni giorno si recavano in città, che riducono temporaneamente la propria presenza. Questi comportamenti si possono leggere per esempio nel calo della popolazione residente di Milano che prima di marzo 2020 aveva trionfalmente superato la soglia psicologica del milione e quattrocentomila abitanti. Ebbene quella soglia è stata, psicologicamente, superata al ribasso, con una perdita in un anno di circa 50000 unità.
Non è detto, poi, che quelli che mantengono la residenza non abbiano, però, scelto una seconda casa altrove, riducendo ulteriormente, la popolazione che quotidianamente frequenta la città e, dunque, i suoi locai, bar o ristoranti che siano.
Quindi ecco l’esortazione che facciamo nostra: riprogrammare, essere flessibili.
La domanda cambierà, inevitabilmente, tanti locali che avevano basato il proprio successo sulla pausa pranzo, spariranno, perché per un po’ di tempo, non ci saranno abbastanza clienti per tutti.
Alcuni, quelli che sopravvivranno, dovranno modificare l’offerta riuscendo a contemperare una proposta in presenza con una d’asporto, sia verso le case dei lavoratori che verso i luoghi di co-working. Infine, capitolo capacità di spesa che vale per l’offerta di tutta la giornata. Anche qui ci vorrà tempo per assorbire le perdite che una fetta di popolazione ha subito, di conseguenza, nella fascia media, cambierà la media di scontrino che ci si potrà permettere, con conseguenze sulla scelta dei locali che sapranno adeguarsi a una riduzione di spesa inevitabile e a medio termine. Alcune proposte saranno penalizzate, menu sopra una certa cifra non saranno più accettati da un numero sufficiente di clienti, pertanto andranno riformulati, saranno privilegiati piatti più semplici con minor food cost e margine.
Insomma, ci vorrà tempo e andrà speso bene, altrimenti il rischio di insuccesso e conseguente chiusura sarà inevitabile e senza appello. Non vogliamo essere pessimisti, anzi, realisti, per mettere in guardia chi pensa che tutto torni come prima e si risvegli improvvisamente in una realtà da incubo.