Le due curveln Italia è impossibile dibattere serenamente su nulla, figuriamoci discutere di laicità

L’unica cultura ammessa negli uffici pubblici e nelle aule dovrebbe essere quella della neutralità rispetto ai simboli religiosi. Lo Stato non dovrebbe ammettere le pretese di chi vuole imporre il proprio credo, indipendentemente da quale sia: questo Paese non dovrebbe avere “una” religione, ma “nessuna” religione, di modo che “tutte” le religioni siano davvero libere

Claudio Furlan/Lapresse

Se nel mezzo dei mille parlamentari divisi tra Dio-Patria-Famiglia e Greta-Fedez-Zan esistesse non dico una militanza, ma almeno un’ipotesi di impostazione laica, non avremmo assistito al dibattito sul crocifisso nelle scuole acquisito in esclusiva monopolistica da un leghista, il sottosegretario all’Istruzione, Rossano Sasso, che denuncia il «fanatismo nichilista» dell’orda atea che vuol «mettere in discussione la nostra cultura, le nostre convinzioni, la nostra Fede».

La notizia ha fatto qualche rimbalzo perlopiù parrocchiale, perché ben altro occupa la scena, e il caso dei due cittadini di Padova che si incaparbiscono a reclamare la rimozione di quel simbolo dalle aule scolastiche merita evidentemente così poca attenzione da eccitare soltanto l’interesse delle seconde file sovraniste. E invece la questione sarebbe importante.

Perché proprio come nel caso della retorica adoperata a sostegno del ddl Zan, per la quale chi mostra perplessità – tipo il noto omofobo neonazista Giovanni Maria Flick – vuol portarci verso «l’Europa sovranista di Orban e Duda» (copyright del medesimo Zan), anche da quest’altra faccenda del crocifisso nelle scuole è rigorosamente escluso qualsiasi spazio per un paio di osservazioni laiche: e cioè – la prima – che negli uffici pubblici non c’è, o almeno non dovrebbe esserci, «la nostra cultura» né tanto meno la «nostra fede»; e poi – la seconda – che c’è caso che qualcuno abbia un’altra cultura e un’altra fede, qualcuno che avrebbe diritto di non vedersi rinfacciata quella degli altri solo perché è maggioritaria.

Imporre in una struttura pubblica di uno Stato laico (il nostro sarebbe tale) un simbolo religioso, istiga chi non vi si riconosce a pretendere l’imposizione del proprio: una pretesa che avrebbe pari diritto di essere avanzata solo che la minoranza religiosa diventasse maggioranza, giungendo dunque a poter reclamare anch’essa la riaffermazione via ufficio pubblico della “sua cultura”, della “sua fede”.

L’unica cultura da rappresentarsi negli uffici pubblici, e massimamente nelle scuole, è quella della legge uguale per tutti con diritti uguali per tutti e che tutti devono rispettare, perché solo in questa comunità di doveri e di diritti sta la “giustizia” di un Paese civile.

Le divagazioni leghiste (ma non solo leghiste, purtroppo) sui “valori” da riaffermare negli atti e nei vestimenti della cosa pubblica trascurano di considerare che lo Stato laico non avrebbe il compito, né il potere, di mettere nella legge i valori e di imporne l’accettazione: nemmeno se si trattasse, come non si tratta in questo caso, di valori di tutti.

I valori di tutti dovrebbero essere appunto quelli là, i pari diritti per tutti: a cominciare dal diritto ad uno Stato che non ha “una” religione, ma “nessuna” religione, di modo che “tutte” le religioni davvero siano libere; lo Stato che non ha “un” dio, ma “nessun” dio, di modo che chiunque possa avere il proprio.

Sono (dovrebbero essere) banalità irripetibili, che invece occorre richiamare se un sottosegretario si predispone «a difendere le nostre convinzioni a costo di andarlo a mettere di persona quel crocifisso che qualcuno vorrebbe togliere dalle nostre scuole»: la reconquista degli asili affidati all’eresia del gender che si sostituisce a Nostro Signore.

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