Per come si sono messe le cose, il disegno di legge Zan più che al rinforzo penalistico delle normative antidiscriminatorie e delle politiche di contrasto dell’hate speech finirà per servire al consolidamento del bipolarismo tra un mainstream culturale progressista, che affastella identità deboli e minoritarie da proteggere con un generoso ma indeterminato “dirittismo”, e un mainstream politico regressista, che fa della libertà di parola il conveniente contenitore di pregiudizi e suprematismi etici ancora ampiamente maggioritari nell’opinione pubblica in senso lato. Opinione pubblica, che non è evidentemente quella che legge i giornali, né tantomeno quella che li scrive.
È possibile che l’innesco di questo scontro impari (e destinato a favorire le piazze nere, non quelle arcobaleno) dipenda, in sé, dal tentativo, lodevole e necessario, di approvare norme che equiparino la discriminazione sessuale a quella razziale o religiosa e che pongano al riparo dall’istigazione alla violenza (che è sempre “verbale”) persone che ne vengono fatte bersaglio non per il colore della pelle o per esperienze di fede e di culto, ma per aspetti che rimandano alla dimensione sessuale dell’identità personale. È dunque possibile che questo assai poco propizio processo di polarizzazione sia inevitabilmente legato alla scelta di mettere il dito nella piaga, per proteggere minoranze esposte e visibili dalla violenza di maggioranze anonime e nascoste ai riflettori della censura sociale.
Però è certo che l’abitudine di usare il diritto penale alla “come viene viene”, preoccupandosi di difendere la purezza e l’evidenza del proposito, senza troppo riguardo per le conseguenze delle norme, aggrava, a tutto vantaggio del fronte finto-libertario, il sospetto che queste leggi servano solo a consolidare un soft power conformista con forme grottesche di polizia del pensiero.
Tutte le normative che intervengono sul diritto di parola sono scivolose, anche quando sono necessarie e lo sono ancora di più quando scelgono di usare l’arma nucleare della tutela penale, che esige una chiarezza e una precisione che non si concilia con quella sorta di simbolismo giuridico, per cui reati e pene sono immaginati come messaggi culturali, forme surrettizie di pedagogia civile o ausili ortopedici del costume sociale. Le censure più acute e pertinenti al disegno di legge Zan – non all’idea di una legge, ma alla immodificabilità di questa legge – sono venute da giuristi (per citarne due: Tullio Padovani e Giovanni Maria Flick) tutt’altro che ostili alla battaglia anti-discriminatoria.
L’articolo 1 categorizza in ambito penale con una precisione definitoria apparentemente neutrale e oggettiva profili della dimensione sessuale, che ancora oggi sono oggetto di incerta classificazione giuridica in ambiti assai meno sensibili («Ai fini della presente legge: (a) per sesso si intende il sesso biologico o anagrafico; b) per genere si intende qualunque manifestazione esteriore di una persona che sia conforme o contrastante con le aspettative sociali connesse al sesso; c) per orientamento sessuale si intende l’attrazione sessuale o affettiva nei confronti di persone di sesso opposto, dello stesso sesso, o di entrambi i sessi; d) per identità di genere si intende l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione»). Parlare solo di “sesso” deve essere apparso in qualche misura rinunciatario ai proponenti, senza l’apparato delle casistiche enumerate con acribia burocratica para-sindacale, perché nessuno se ne sentisse escluso, ma il risultato è un sovrappiù di ambiguità, non di chiarezza.
L’articolo 4 è una sorta di excusatio non petita e di elencazione (sia concesso: vagamente delirante) di para-esimenti cultural-religiose, volta evidentemente a tranquillizzare il mondo cattolico rispetto al rischio di censura della Bibbia e del Vangelo, ma atta a rinfocolare la polemica su quelle che sarebbero le forme censurate di istigazione indiretta alla discriminazione e alla violenza («Ai fini della presente legge, sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti»). Come se bastasse questo a proteggere chiunque leggesse le pagine più truculentemente omofobe o sessiste delle Sacre Scritture o di qualunque testo sacro (tutti mediamente risalenti a tempi in cui il principio stesso di uguaglianza, non solo sessuale, non era una istanza così rilevante – diciamo) per porre al riparo l’esegeta o il predicatore dalla pretesa incriminatoria.
Questa confusione tra piano culturale e piano penale, tra pedagogia civile e mazzate sanzionatore non ha nessuna utilità pratica ma nasconde, come tutte le “leggi manifesto”, un rischio di clamorosa eterogenesi dei fini, anche perché a fare le leggi così sono più bravi i regressisti dei progressisti. E ha ben poco senso, pure tatticamente, lasciare il monopolio della difesa della libertà di parola a chi sostiene che in fondo considerare e qualificare pubblicamente i gay come degenerati meritevoli dell’Inferno terrestre e celeste (… e apriamo il dibattito!) e magari domani sdoganare la circolazione dei Protocolli dei Savi di Sion in funzione antisemita (… perché non dibattere anche su questo?) sia l’estrema frontiera del free speech.
Il mondo progressista, comunque inteso, dovrebbe evitare di (dare l’impressione di) volere portare Ratzinger alla sbarra per istigazione all’omofobia con gli stessi argomenti con cui, ratzingerianamente, si potrebbero portare alla sbarra Vladimir Nabokov e Sandro Penna per istigazione alla pedofilia. È proprio necessario, compagni, questo regalo a Matteo Salvini e a Giorgia Meloni? È proprio impossibile aggiustare quel che c’è da aggiustare in un testo encomiabile nelle intenzioni, ma sbilenco nella riuscita?