Il momento perfettoDa quanto tempo non ci chiediamo se siamo felici

Più che una condizione da raggiungere, è una vocazione su cui costruire tutta la vita. Non ha merito, è fatta di fortuna, ma non ci si deve vergognare. Tanto, come racconta Ilaria Gaspari in “Vita segreta delle emozioni” (Einaudi) è fugace come un batter d’occhio

di Andres Hernandez, da Unsplash

In piena pandemia ho cercato di applicarmi per venire a capo dell’enigma: capire il segreto della felicità.

C’era un’idea che non mi abbandonava, un’idea partorita dalla saggezza greca che però, a furia di rigirarmela fra le mani, mi pareva sempre più nuova, nuova di zecca. Che la felicità sia una vera e propria vocazione dell’uomo, di tutti gli uomini, da perseguire come una virtù, per dirla con Aristotele. Non un momento di spensieratezza, ma un lungo lavorio di conoscenza. E notate che non ho detto il frutto di un lungo lavorio, eccetera eccetera; perché un’altra cosa importante che i Greci ti sanno insegnare, è che non conta mai tanto la meta, l’obiettivo, l’approdo, quanto la meraviglia del viaggio.

Nell’estate del 1960 l’antropologo Jean Rouch passò giornate intere a girare per le strade di Parigi, accompagnato dal filosofo Edgar Morin, e non per bighellonare, come pure sarebbe stato legittimo.

Alla maniera di Socrate, che nella sua Atene sottoponeva chiunque gli capitasse a tiro a domande sui massimi sistemi, i due fermavano i passanti, li interrogavano.

Loro, però, invece di intavolare lunghi dialoghi maieutici, alla gente per strada facevano sempre una stessa domanda. Chiedevano a tutti quanti: siete felici?

Le risposte, filmate e montate insieme, andarono a comporre un grande ritratto sociologico collettivo che si è trasformato in un classico del cinema-verità, Chronique d’un été, che tenta di fermare un momento dentro questa domanda cruciale. D’altra parte, come insegna Faust nell’istante in cui firma la sua condanna – la sua anima venduta al diavolo al prezzo del desiderio di arrestare il tempo –, il momento felice, il momento perfetto, quello che vorremmo durasse in eterno, è un Augenblick: il «batter d’occhi» della felicità.

La domanda di Rouch e Morin è una domanda tenera e profonda, benché rivolta da sconosciuti a sconosciuti. È una domanda ingenua, pressante. Una vera domanda. Sei felice? Siamo felici? Sono felice?

Da quanto tempo non ce lo chiediamo?

E soprattutto: sappiamo rispondere senza esitare, oppure abbiamo bisogno di pensarci?

È una domanda, credo, a cui ogni tanto fa bene provare a rispondere. Anche se la risposta è no, anche se solo a sentircelo chiedere ci capita di scoppiare a piangere – succede anche questo, non c’è niente di male.

Ma è importante, credo, non dimenticare quello che la felicità è stata per i Greci: una vocazione. Ricordarci che è un diritto cercarla, provare a perseguirla. Che è materia da filosofia, non (o non solo) da autoaiuto; che non è un capriccio, una deroga o un piacere colpevole da strappare a un’idea arcigna, tutta prescrittiva, ella vita, ma pura, pienissima virtù nel senso aristotelico. Qualcosa che risponde alle ragioni più autentiche del nostro vivere. E che, anche se purtroppo non camminiamo dentro le strade di Parigi nel bianco e nero di quel film estivo, alla domanda di Rouch e Morin non sfuggiamo nemmeno noi, ovunque siamo, qualsiasi strada stiamo percorrendo.
Siamo felici?

Essere felici, d’altra parte, se non è una colpevole indulgenza, né una defezione rispetto ai cosiddetti «doveri» che la vita ci infligge, non è neppure un merito.

Non è qualcosa che dobbiamo per forza esibire, immortalare in fotografie da mostrare a destra e a manca – anche se ci piace farlo, con l’alleanza dei social. Scriviamo didascalie come #happy, #happylife, #happiness, e piovono immagini di colazioni luculliane risplendenti di succhi di frutta e avocados, stanze piene di luce e di piante, sorrisi a trentadue denti, altri sorrisi, spiagge e momenti perfetti, che però – il pensiero mi colpisce adesso – qualcuno si è dovuto prendere la briga di interrompere, anche solo un istante, per poter fotografare.

Io pure, quante volte sospendo un momento che mi pare perfetto, per scattare una fotografia. E mentre scatto, dove sono? Né dentro né fuori. Mi dico che è importante conservare gli attimi, farne piccole reliquie – creare una specie di dispensa ideale, un granaio stipato di provviste di felicità per quando verranno tempi piú duri.

Non lo prescriveva anche Epicuro ai suoi discepoli, di metter da parte le memorie felici per riviverle nei momenti di sofferenza? Certo, lui non poteva avere in mente le fotografie, ma istintivamente, con i mezzi che ho a disposizione io oggi, ben lontana dal Iv secolo a. C. in cui Epicuro forgiava la sua idea di vita felice (ovvero non ricattabile dalle obiezioni di chi pensa che la felicità sia invece impossibile, irraggiungibile – in una parola, inconsistente), mi rendo conto che quando scatto la foto di qualcosa a cui sento che vorrò ritornare vado in quella direzione, che procedo verso la creazione di una scorta personale di minuti perfetti.

E però – c’è un però. Perché certo, che male c’è se usiamo il mezzo fotografico per conservare un batter d’occhi e farlo durare per sempre; ma forse Epicuro intendeva una cosa che io, nella smania dell’inquadratura e dello scatto, dimentico completamente. Che sì, va bene archiviare gli istanti felici, metterli via per i giorni di pioggia; ma prima di documentarli sarebbe importante viverli fino in fondo.

E quest’acrobazia cui mi costringo per essere sicura di conservarli, è come se ogni volta mi sbalzasse fuori – fuori di me, fuori dal momento. Fuori, per essere testimone, sempre, mai protagonista.

da “Vita segreta delle emozioni”, di Ilaria Gaspari, Einaudi, 2021, pagine 184, euro 13,50

© 2021 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino
Pubblicato in accordo con The Italian Literary Agency

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