Woody Allen torna nella sale cinematografiche da domani con “Rifkin’s Festival”. E dal salotto della sua casa nell’Upper East Side di Manhattan, seduto sul divano in pelle tra due librerie, concede via Zoom interviste ai giornalisti. Sulla Stampa e Repubblica racconta le sue giornate durante la pandemia, le trasformazioni del cinema post Covid e anticipa i contenuti del prossimo film, il cinquantesimo della sua lunga carriera.
Stavolta, nella nuova pellicola, il suo alter ego è uno scrittore in crisi creativa e matrimoniale che si rifugia nell’immaginario di grandi autori, da Bergman a Fellini. E Woody Allen è felice che esca in sala. «Sono cresciuto così, per me il modo corretto e più godibile di vedere i film è andare al cinema seduto con centinaia di persone davanti a uno schermo gigante. Vedere “Il Padrino” sul cellulare o in tv o al pc da solo sul divano significa negare l’intera estetica del cinema». Ma è pessimista sul futuro dopo la pandemia che ha «amplificato il consumo domestico, sarà difficile tornare indietro, quando basta spingere un pulsante».
Ma le relazioni umane – dice lui, che nelle sue pellicole le ha indagate a fondo – «ritorneranno come sono sempre state. Ci saranno mutamenti di altro tipo, persone che sceglieranno di vivere in luoghi diversi, non andranno più in ufficio, ma, per il resto, la gente manterrà gli stessi desideri, le stesse ambizioni, le stesse debolezze. L’esperienza umana resta la stessa».
Ma com’è stato il suo lockdown? «Per me non è cambiato molto», ammette. «Mi alzo la mattina, resto a casa, scrivo, cammino sul tapis roulant, suono il clarinetto, guardo il baseball in tv. Il mio è un lavoro solitario e domestico. Mi sono mancati gli incontri con gli amici al ristorante».
Il regista di Rifkin’s Festival, interpretato da Louis Garrel, è antipatico e supponente. Ma non è il suo modo di vedere i colleghi, dice: «Ci sono tanti tipi di registi, pochi bravissimi, altri terribili, molti nel mezzo, che non sono geni, ma fanno buoni film, pur non essendo né Fellini, né Welles, né Bergman. E poi, certe volte, ci sono registi con un talento incredibile che la gente sa subito riconoscere».
Il personaggio di Mort Rifkin, affidato a Wallace Shawn, ha problemi di salute legati a una crisi creativa. «Vengo sempre accusato da famiglia e amici di trasformare la mia ansia creativa, le mie ambizioni, in sintomi di problemi medici, così ho la reputazione di essere ipocondriaco, ma non lo sono», racconta. «La verità è che quello che racconto viene dalla mia diretta esperienza, per questo posso scriverne». Nel film, Allen parla anche di Dio: «Non sono un suo grande fan, penso che sarei molto sgarbato con lui, gli chiederei “ma come sei riuscito a fare tutto quello che hai fatto?”».
Rifkin’s Festival è anche un inno al grande cinema europeo. «Dopo la seconda guerra mondiale il cinema europeo era più maturo e innovativo dal punto di vista artistico», ammette. «In Usa il cinema era ancora infantile, guidato principalmente dalla logica dei profitti. I film europei erano quindi più amati, per la tecnica e per i temi affrontati. Sono cresciuto in quell’epoca, quando tutti volevano vedere i film europei e non americani».
E le serie tv? «Non le vedo mai, e non per un particolare principio religioso. So, anzi, da amici, da mia moglie, da mia sorella, che ce ne sono di ottima qualità. Ma in tv preferisco lo sport, il baseball, i notiziari».
Intanto lavora al prossimo film. «È già pronto», dice. «Avrei dovuto girarlo l’anno scorso a Parigi, ma il Covid ha cambiato i piani, appena sarà possibile lo riprenderemo». Sarà la sua cinquantesima pellicola: «Non posso svelare molto. Sarà un film sulla falsariga, in senso generale, di “Match Point”. Un’idea che funziona in una città europea come Parigi. Spero che il pubblico lo apprezzerà. Faccio del mio meglio e sono fortunato: in cinquant’anni di carriera il pubblico finora si è quasi sempre divertito».