Eredità tossicaNoi “giovani infelici” nella cultura data-driven (e le colpe dei padri)

La società dell’informazione, con la sua passione per la tecnica e la sua fede nelle macchine, suona sempre più retrograda e pericolosa. Perché un problema umano o sociale non va rappresentato sotto forma di numeri, ma con nomi e storie, e non va tradotto in codice e assegnato a un computer, ma discusso con i nostri simili

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«C’è bisogno che qualcuno ci ricordi che siamo esseri umani», diceva il buon vecchio Raymond Carver. Dove l’amore non è ancora riuscito a riunirci in una famiglia, forse un virus riuscirà per forza. Intanto, ci ha distolti brutalmente dalla routine e ci ha costretto a valutare seriamente delle alternative. E quando si annuncia il tempo di cambiare vita, la prima cosa è scegliere che cosa lasciarsi alle spalle.

«I figli che non si liberano delle colpe dei padri sono infelici: e non c’è segno più decisivo e imperdonabile di colpevolezza che l’infelicità». Queste parole di Pier Paolo Pasolini mi incuriosirono senza stupirmi. Quello che seguiva, invece, fu una folgorazione: «L’eredità paterna negativa li può giustificare per una metà, ma dell’altra metà sono responsabili loro stessi […]. Ed è giusto che siano puniti anche per quella metà di colpa altrui di cui non sono stati capaci di liberarsi».

L’argomento tranciava salomonicamente i dubbi apparentemente insolubili che mi perseguitavano a quel tempo. È, così, le generazioni precedenti ci lasciano in eredità, fra le altre cose, i loro errori. È un fenomeno inevitabile e naturale come la pioggia, come la sofferenza che ne viene. Poi c’è la nostra parte nella storia: tentare di comprendere, di porre rimedio, di interrompere il samsara. Ora, se rammendare le colpe dei padri è forse il compito più arduo per ognuno – così spesso si sorride per coprire chi ci ha messo al mondo, ovvero da eterni bambini gli si imputa ogni avversità – tanto più difficile lo è per una intera cultura, con la sua tradizione radicata di pensiero.

Non siamo noi tutti quei “giovani infelici”? Sempre più confusi, impauriti, malati, mentre sulla carta la nostra vita doveva essere luminosa e piacevole come mai prima. Amara beffa! Ma è così, bisogna ammetterlo: i nostri vecchi ci hanno rifilato un sacco di frottole. Non per cattiveria, s’intende; semplicemente non potevano fare di meglio, date le conoscenze dell’epoca. E noi ancora siamo fuorviati dalle loro raffinate «menzogne intellettuali», come le chiamava Wystan Hugh Auden riferendosi in particolare alla favola platonica dei filosofi-re, con quel nefasto mix di fascino poetico e subdola inclinazione al totalitarismo.

Ideali grandiosi e farneticanti. Chimerici modelli perfetti in vece di una realtà ignorata. Verità fatte solo per l’anima o l’intelletto immateriali, da cui la maledizione e l’emarginazione dei corpi. Sublimazione del linguaggio, e dunque presuntuose ontologie, presunti ordinamenti totali del mondo fatti di parole incrociate. Narcisismo, arroganza, disprezzo per gli altri nobilitato da abili retori. Prescrizioni per un corretto pensiero fatto di asciutta logica aristotelica, epurato da emozioni e contraddizioni. Un umanesimo sciovinista centrato sul delirio di onnipotenza che Pico della Mirandola riassume per prosopopea divina: «Tu, che non sei racchiuso entro alcun limite, stabilirai la tua natura in base al tuo arbitrio, nelle cui mani ti ho consegnato».

Dunque imperialismo, colonialismo, razzismo. Rifiuto infantile dei limiti imposti dalla materia. Negligenza della natura, e conseguente rovina ecologica. Rifugio nelle astrazioni e fuga dalla realtà. Schizofrenia corpo-mente autoindotta. Proclamazione del regno della Ragione astratta, disincarnata, logica, universale, uguale per tutti, ma sempre definita da pochi. Il mito dell’individuo “razionale” e dottrine politiche costruite su qualche sua immaginaria “libertà”. L’egoismo come etica suprema della modernità. Il trionfo dei free rider e la razzia come una delle belle arti. La società umana ridotta alle formule dell’economia matematica, matematica abusata come psicofarmaco ed emulatore di scienza. Il turbocapitalismo. La società dell’informazione.

È possibile tracciare un lignaggio ininterrotto di pensiero che porta dalla antica metafisica, con il suo dirottamento verso il cielo di parole comuni, cristallizzate alla stregua di enti matematici, fino all’attuale cultura in cui si rappresenta e comprende il mondo solo sotto forma di dati digitali, vale a dire per mezzo di numeri. Una cultura in cui è obliato il gap incolmabile tra umani vivi e macchine non vive. Una cultura in cui si afferma una fede religiosa nella computazione come oracolo per ogni questione umana. Un nuovo laissez-faire, che prosegue e amplia di gran lunga il precedente. Del resto, una società data-driven non è che la nuova stagione di una società market-driven, condividendo le due visioni un approccio non umano alla risoluzione dei problemi, il quale fatalmente produce “soluzioni” inumane.

Nella genealogia di questa cultura orientata alle macchine e non agli umani, l’ultimo passo e decisivo si deve all’opera dei due matematici/ingegneri Alan Turing e Claude Shannon. Turing indagava sui limiti della calcolabilità, Shannon sull’efficienza delle comunicazioni su canali fisici. Sia la “macchina” di Turing che il “messaggio” di Shannon sono genuine entità matematiche, non metafore: entrambe sono indifferenti al contenuto, non hanno nulla a che fare con la vita, non hanno bisogno di presenza fisica, e non contemplano alcun significato, tanto meno di ordine morale. Tuttavia, grazie all’efficacia tecnica dei loro risultati, la loro sfera di influenza si è estesa in misura incontrollata nel territorio umano.

L’approccio di Turing alla computabilità ha preso un ruolo essenziale nella definizione di “intelligenza”, e per estensione l’intelligenza in generale si è confusa col computabile al punto che umani e macchine vengono confrontati sulle partite a scacchi o altri giochi simili. L’informazione di Shannon, codificata in bit, è diventata l’informazione tout-court, e per estensione la conoscenza in generale.

La fervida riduzione dell’umano al calcolabile è l’ultima rappresentazione di una grande tradizione del pensiero occidentale in cui l’esaltazione dell’Uomo come concetto è andata di pari passo con la svalutazione costante dell’uomo in carne e ossa. È uno sguardo impietoso che ci vede difettosi, imperfetti – non abbastanza logici nel discorso, proni agli abbagli, traviati dalle emozioni, compromessi dai limiti del corpo – e pertanto da correggere con la perfezione della matematica e delle macchine. Un’ideologia tuttora vivissima, esplicita ad esempio negli argomenti dei transumanisti o dei sostenitori delle auto a guida autonoma.

Eppure, se consideriamo l’imperfezione umana, quale nostra follia è più grave dell’illusione medesima che l’umano imperfetto possa essere “corretto” con i miseri mezzi della nostra stessa imperfezione? Il fatto è che la cosiddetta imperfezione umana è frutto di una evoluzione che ha forgiato apparati di cognizione adatti a sopravvivere, e che in passato non avevamo sufficiente scienza per comprendere guardando i fenomeni dall’alto in basso, muniti solo di parole.

Dove per Jeremy Bentham era «vano parlare dell’interesse della comunità senza comprendere quale sia l’interesse dell’individuo», noi possiamo essere molto più onesti di lui perché sappiamo che è vano parlare dell’interesse dell’individuo senza comprendere come è fatto. Se ci sta a cuore la libertà e abbiamo il principio politico di coltivarla, dobbiamo onestamente sapere quale libertà è possibile non per l’Uomo in astratto – un essere senza volto che non esiste – ma per ciascuno di noi, uno per uno. Quale libertà non nell’iperuranio, ma quaggiù nel mondo fisico, con i suoi limiti e le sue leggi, con il suo dolore e la sua estasi.

Per questo è un gran bene che finalmente le neuroscienze, la biologia, la genetica, stiano producendo un sapere dal basso verso l’alto, che inquadra noi umani non nella mera storia, ma nella storia naturale di miliardi di anni da cui proveniamo insieme a tutto ciò che ci circonda. Le scoperte di studiosi come Antonio Damasio, Giacomo Rizzolatti, Jean-Pierre Changeux, Simon Baron-Cohen, Erik Kandel, Vilayanur Ramachandran, Semir Zeki, Michael Tomasello, Robert Plomin, Luigi Luca Cavalli-Sforza, Edward Wilson, solo per citarne una manciata, stanno gettando ponti reali tra la storia naturale, la persona umana e le culture, riunificando tutto ciò che sembrava separato, tutti gli ossimori nominali, tutti gli apparenti paradossi che i nostri padri ci avevano lasciato in eredità, col loro strascico di teorie e pratiche inadeguate.

La complessità senza fine dell’umano che ne emerge è un orizzonte illimitato per l’indagine, per la comprensione di noi stessi e del nostro posto nella natura. Insegna un’umiltà altrettanto sconfinata nei confronti dei nostri simili, perché per quanto ne sappiamo è un vero miracolo parlare e intendersi. È un sapere profondamente rivoluzionario anche in senso politico, perché mostra come il nostro cervello generi una «simulazione incarnata» degli altri dentro di noi, una «risonanza intersoggettiva» che rende l’individuo parte organica di una comunità, e questo è il reale tessuto della società umana nel quale ci muoviamo con la guida delle emozioni e dei sentimenti. Empatia, cura, fiducia, reputazione, reciprocità, impegno congiunto, riconoscimento, appartenenza, tutto ciò è indispensabile e funziona meglio in presenza fisica, nel rapporto diretto tra i corpi, al di sotto della soglia della coscienza e a monte del linguaggio.

Per questo la società dell’informazione, con la sua passione per la tecnica e la sua fede nelle macchine, suona sempre più retrograda, interessata e pericolosa. Vedersi l’un l’altro attraverso il software, sotto forma di dati, vuol dire vedersi l’un l’altro come oggetti. Spegnere l’empatia, la cognizione emotiva e sentimentale di base temperata nell’arco di milioni di anni. Diventare menomati come individui e come società. «Noi non capiamo parole, non capiamo enunciati, non capiamo segnali. Noi capiamo persone», ricorda Dan Sperber. Da parte mia soggiungo: noi non capiamo numeri e statistiche, noi capiamo persone.

La cosiddetta “imperfezione” umana copre tutto l’infinito territorio di comprensione che sta al di là del confine del computabile, il confine segnato da Alan Turing, Emil Post, Alonzo Church ed altri. È questo il territorio dove la stragrande maggioranza di noi vivono la loro vita, precluso solo da patologie mentali (come la sociopatia o l’autismo) oppure sociali (come il totalitarismo). La frontiera tra il calcolabile e l’incalcolabile è un confine epistemologico, etico, politico, che va illuminato e difeso.

Una questione che si pone sempre più spesso: un problema umano o sociale va rappresentato sotto forma di numeri, oppure con nomi e storie? Va tradotto in codice e assegnato a un computer, oppure discusso con i nostri simili? Va “risolto” come un’equazione, oppure «trasformato e superato», come indicava Theodor W. Adorno? La matematica e le macchine che la implementano hanno un modo molto diverso di “risolvere” i problemi. Per noi, trovare qualcuno che ci guarda negli occhi e ci ascolta è già una soluzione. Per una macchina, è una x > 0.

È fin troppo probabile che l’assuefazione, il timor panico della complessità che lievita, l’interesse economico modellato su un concetto arcaico di “efficienza”, indurranno sempre più nella tentazione di deputare alle macchine compiti cognitivi di ogni genere e giudizi performativi su noi umani. In altre parole, li spingerà a cedere alle macchine altre porzioni del territorio dell’incalcolabile, con una progressiva disumanizzazione dell’ambiente sociale – scenario ideale per le forme di potere ispirate alle macchine, e di certo caldeggiato dai soggetti più disturbati in senso antisociale, i quali sono essi stessi più affini alle macchine. È un circolo vizioso analogo a quello della tossicodipendenza, e come questa è accompagnata dall’illusione di avere il controllo della situazione. È una tossicodipendenza culturale, la condotta psicopatologica di una intera cultura che si affida sempre più all’illusione di dissetarsi dove invece l’attende solo il deserto.

In questo frangente radicalmente nuovo, sono per forza nuovi i compiti che attendono le persone di buona volontà che intendono affrancarsi da quella metà delle colpe dei padri che spetta loro. Ed ecco quelli che posso immaginare, o che almeno sento come miei.

1) Migrare verso la «visione corretta dell’uomo» di cui parla Antonio Damasio, informata dalla neurobiologia e in genere dalla scienza più recente.

2) Discutere i limiti della calcolabilità in relazione all’umano, valutare gli effetti collaterali delle loro trasgressioni, dichiarare i diritti inviolabili di ciò che non è computabile nei confronti delle macchine autonome.

3) Per converso, promuovere e allevare fin dai primi gradi di istruzione le capacità pro-sociali scientificamente accertate (vedi, ad esempio, empatia e reciprocità forte) come parte di una generale educazione psicologica precoce, la cui assenza ostinata è inspiegabile e perniciosa.

Lo scopo ultimo (o il sogno)? Cercare un fattor comune culturale e formare un tessuto sociale globale capaci di affrontare le minacce di ordine planetario e le sfaccettature della vita, insieme, in un’epoca esiziale senza precedenti.

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