BiginoLà dove osa l’algoritmo 

Ha vinto la flessibilità: non c’è parola più azzeccata per definire la migliore reazione all’improvviso cambiamento che il mondo ha subìto negli ultimi 16 mesi. Solo chi è stato davvero in grado di modificare la sua forma e plasmare il suo lavoro sulla nuova realtà mutevole e in continuo cambiamento è stato in grado di sopravvivere e resistere

Costruire un brand legato alla ristorazione che fosse perfetto per la consegna è uno dei passaggi fondamentali del cambiamento in corso nell’ultimo anno e mezzo.

Uber Eats stima che il numero di marchi virtuali sulla sua piattaforma sia più che triplicato nel 2020, arrivando a oltre 10.000 brand. La piattaforma americana Grubhub riporta un boom simile: secondo un rapporto pubblicato quest’anno dalla società, il 15% dei ristoranti gestiva un marchio virtuale prima della pandemia. Alla fine del 2020, è il 51% ad averne almeno uno.

Non sono ristoranti, dunque, ma cucine fantasma – a volte all’interno di un ristorante – nelle quali la proposta ristorativa è diversa da prima, e di solito molto verticale.

In Italia l’ha fatto per esempio il bistellato Philippe Léveillée, proponendo per lunghi mesi solo gelato e cannoncini, l’ha fatto in Francia la tristellata Anne Sophie Pic, con le sue proposte semplici e alla portata di tutti.

Lo hanno fatto, negli Stati Uniti, moltissime realtà che hanno costruito brand dal nulla, spessissimo legati a un solo prodotto, o a pochissime proposte sfruttando un solo ingrediente e costruendo intorno ad esso tutta la loro carta.

Come hanno scelto che cosa proporre? Anche in base alla ricerca degli utenti.

«Con i marchi virtuali molto si riduce davvero all’ottimizzazione della ricerca», afferma su The Verge Melissa Wilson, preside della società di consulenza di servizi di ristorazione Technomic. Perché le persone cercano sulle app di consegna del cibo più o meno allo stesso modo in cui cercano qualsiasi altra cosa online. Da lì a dover imparare anche a lavorare sul SEO, a posizionarsi bene sui motori di ricerca, a fare clickbait per vendere hamburger, il passo è breve.

Negli Stati Uniti a fare il gioco grosso sono state le ali di pollo: croccanti, facili da preparare, facili da trasportare, perfette anche a distanza, un “cibo da divano” goloso che allo stesso tempo dà l’illusione di non essere troppo calorico. E estremamente facili da vendere, da capire, da trovare. In teoria, le persone quando ordinano online sono libere di provare cose strane; in pratica, quasi tutti poi si fermano alle opzioni che conoscono e che trovano confortanti. Per far diventare il proprio ristorante quello che verrò scelto, serve spesso solo l’ottimizzazione digitale. Un buon posizionamento fa la differenza, una buona comunicazione cambia il business, e il ristorante modifica pelle e volto, diventando a tutti gli effetti un’azienda con bisogni nuovi.

Occorre cambiare pensiero, e cambiare anche menu, andando a capire quale sarà il trend una volta che le cose cambieranno nuovamente.

Ma i brand virtuali potrebbero anche offrire a chi le sa cogliere delle nuove opportunità: perché senza sala e investimenti, si possono sperimentare nuove idee, e avere l’occasione di mettere alla prova format o progetti che fino a due anni fa sarebbe stato difficile testare su un pubblico vasto. Allo stesso tempo, la disponibilità di dati su ciò che funziona, le piattaforme che premiano algoritmicamente il successo e il modo in cui le persone cercano prodotti generici, sono tutti elementi che creano una spinta evolutiva nella stessa direzione. Intercettarla è la vera sfida per la ristorazione.

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