Generalizzando molto è possibile sostenere che esistano due modi per descrivere un vino in occasione di una degustazione pubblica, uno di quegli appuntamenti durante i quali un relatore cerca di raccontare il contenuto di un bicchiere a un pubblico di persone che sta assaggiando la stessa cosa, lo stesso vino. Oppure, più in piccolo, al ristorante, quando il sommelier prova a spiegare il vino che ha appena proposto al tavolo.
Da una parte chi si attiene a una serie di termini più o meno facilmente comprensibili, la cui grammatica condivisa in Italia è per esempio quella mutuata dall’Associazione Italiana Sommelier, associazione i cui corsi vengono frequentati ogni anno da migliaia di persone: fresco, tannico, equilibrato, armonico, oltre a una serie di riconoscimenti che più o meno tutti siamo in grado di recuperare dalla nostra memoria olfattiva: ciliegia, fragola, vaniglia, pesca, banana, etc.
Dall’altra parte chi prova a utilizzare termini più evocativi, che esulano dal tecnicismo delle scuole di formazione più classiche (la già citata AIS ma anche altre associazioni come l’ONAV, l’Organizzazione Nazionale Assaggiatori Vino, oltre che il WSET, il Wine & Spirits Education Trust, organizzazione inglese dall’ampio respiro internazionale i cui certificati stanno diventando sempre più popolari anche in Italia). Ecco quindi fare capolino fra i termini usati per descrivere un vino parole come slancio, allungo, presa, tensione, compattezza, profondità, solo alcuni di un vocabolario pressoché infinito, il cui unico limite è nella fantasia del degustatore.
In un recente articolo su Wine Enthusiast Caroline Hatchett ha provato a chiedere ad alcuni professionisti del settore di fare chiarezza sui termini da loro usati con più frequenza. «Il mio limone potrebbe essere la tua arancia» le ha detto Arthur Hon, beverage manager del ristorante Momofuku Ko, a New York City. Meglio quindi utilizzare parole che se apparentemente possono sembrare come lontane dal linguaggio del vino possono forse risultare come più efficaci. Eccone alcune tra quelle che ha raccolto, ampiamente diffuse anche in Italia.
– Luminoso. Un termine che nel vino significa “vivace e particolarmente fresco”, che non di rado si usa per vini molto facili da bere. Vini «brillanti come dei raggi laser», puri nella loro espressività. Chiaro? Insomma.
– Audace. Un vino «fruttato e con una particolare spina dorsale», che ha magari dei tannini pronunciati e una gradazione alcolica più significativa della media, senza però essere pesante, difficile da bere. Coraggioso? No. Incisivo? Magari.
– Cremoso. Questo è facile: vini la cui caratteristica principale ha a che fare con la morbidezza, quindi vini non freschissimi, la cui maturazione è avvenuta in legno e che magari che hanno trascorso molto tempo in bottiglia. Un esempio molto classico: un vecchio Champagne.
– Elegante. Questo è il più scivoloso di tutti, termine fin troppo diffuso che dovrebbe invece essere appannaggio di una ristretta cerchia di grandi vini. Nel pezzo su Wine Enthusiast si parla di vini eleganti come di vini «il cui frutto è molto curato, vini con una certa età che sono stati a lungo in bottiglia e/o che provengono da zone fresche, magari di montagna». Parliamone.
– Divertente. Uno dei termini che preferisco, usato per vini che cambiano in continuazione una volta versati nel bicchiere, «che sorprendono nella loro semplicità».
– Inebriante. Vini che magari sanno coniugare un corpo non troppo aggressivo con un certo calore, oltre a vini «che sono in grado di entusiasmare, che in qualche modo sono cerebrali». Ahem.
– Succoso. Termine ampiamente sdoganato, che quasi sempre calza alla perfezione con i rossi del Beaujolais e che si riferisce a una certa esplosione del frutto, a quei vini che ricordano la tessitura dei succhi e che richiamano proprio la freschezza del frutto, che sia una ciliegia o una mora. It’s that easy.
– Magro. Come sopra, vini verticali, a tratti scheletrici, che richiamano l’idea di un qualcosa di “dritto”: «vini d’acciaio, come i maratoneti, nervosi». Un vecchio Riesling, o magari un Muscadet d’annata.
– Incisivo. Malbec, Cabernet Sauvignon, Tannat, vini che “impattano”, che lasciano un segno dietro di loro e che si fanno ricordare per energia, senza necessariamente spiccare per morbidezza.
– Rustico. Anche questo è scivoloso, sarà che forse nella nostra cultura può rimandare a un’accezione non completamente positiva. Vini «dall’acidità piacevole, i cui aromi possono ricordare quelli di un cortile di campagna». Alcuni Barbera, dicono (ci può stare).
– Teso. Uno dei miei preferiti, termine che si usa per vini che sono strutturati e al tempo stesso fini, «all’incrocio tra il grintoso e il nervoso». Vini «vibranti di energia, i cui elementi danzano in perfetta armonia tra loro». Sounds good.
Il bello è che la questione non è al centro dell’agenda solo nel mondo anglosassone. In Italia la casa editrice Ampelos ha appena pubblicato un bellissimo volume a firma di Francesco Annibali – Il linguaggio del Vino, che si occupa proprio di indagare il cambiamento di significato di certi termini, nel vino. «Il termine “ciliegia” usato durante una degustazione possiede lo stesso significato di quando viene utilizzato nel linguaggio ordinario, oppure è implicitamente sottoposto a degli slittamenti e a delle riformulazioni? Il linguaggio della degustazione è insomma una semplice porzione del linguaggio ordinario, o è qualcosa di diverso?»
Un libro per certi versi illuminante, specie per chi non si è mai avvicinato alla semiotica, la disciplina che si occupa di indagare tra le altre cose il rapporto tra i segni (in questo caso le parole) e il loro significato. È proprio vero infatti, come scrive l’autore, che «alla pari del cinema, del teatro e di qualsiasi produzione culturale, il vino possiede, in realtà, un linguaggio proprio, attraverso il quale ci racconta storie, politiche, ideologie, sentimenti e interi sistemi culturali».