Barolo è Langa, identità, territorio. Barolo è contadino e borghese, è la doppia faccia della stessa medaglia piemontese. È fatica, è tempo, è costanza. È tradizione e costruzione, è DNA di un luogo e di una serie di famiglie che nei decenni hanno costruito con pazienza e costanza la sua storia e la sua giusta fama.
Oggi Barolo è anche un menu, e se dobbiamo essere grati al lockdown di qualcosa, di sicuro a quel periodo buio della nostra storia dobbiamo un nuovo corso di questo vino all’interno della cucina, grazie alle tante degustazioni che il tristellato Enrico Crippa ha avuto modo di fare per la prima volta da quando calca le scene del Piazza Duomo di Alba, palcoscenico che i barolisti Ceretto hanno costruito a sua immagine e che nel tempo è diventato meta privilegiata dei gourmet di tutto il mondo.
Da quanto lavora qui, questo vivace e tenace chef, ha avuto modo di dare libero sfogo alla sua cucina, ha costruito un messaggio chiaro di naturalità ancora prima che diventasse moda. Ha servito un’insalata a una tavola stellata e l’ha fatta diventare una cifra stilistica, ha coltivato un orto quando ancora nessuno pensava che uno chef dovesse anche occuparsi di materia prima della terra. Ha messo insieme oriente e occidente sulla scia di una lunga frequentazione con Gualtiero Marchesi, primo tra i primi a capire che la precisione e l’eleganza giapponese potessero essere quel tocco in più che mancava ai piatti nostrani.
L’ha fatto quando a Milano non si mangiava solo sushi, l’ha fatto nei famosi tempi non sospetti, e ha dettato l’agenda della cucina italiana più di quanto si pensi. Perché l’ha fatto con pazienza e in silenzio, lontano dai proclami e dai social network, e immerso nella sua cucina lunga e stretta, per i suoi clienti seduti agli ampi tavoli della sala rosa che guarda la piazza di Alba ed è appunto il teatro privilegiato delle sue esibizioni ai fornelli.
Sedersi lì ha sempre significato capire dove stava andando il futuro della cucina del nostro Paese: perché se in altri luoghi del gusto si fa la performance che genera click e provoca l’effetto wow, qui si tracciano le linee guida di ciò che sarà, domani, cucina altrove.
E l’ultimo menu che ci ha proposto Crippa dopo le chiusure è un nuovo intrigante capitolo di una storia che si sta scrivendo. E non è solo per il vino che diventa protagonista, nel piatto e nel determinare le scelte del menu, ma anche per la concezione stessa di una proposta che farà scuola.
Dire semplicità è troppo facile, e significa sminuire il messaggio che arriva assaporando in successione i tanti piatti del menu. Le lingue di suocera, il pane secco del contadino, con un monile fiorentino edibile che ricorda il Soma d’ai, il pane sfregato nell’aglio servito con un grappolo d’uva, la merenda piemontese per eccellenza. L’insalata del vignaiolo che recupera il bollito con la salsa verde, la raschera e noci, nocciole e pere avvolte in una foglia, proprio come avveniva per portare il pasto “con gli avanzi” nei campi. Ma che pasto, e che sapore questa sacca del contadino!
E poi arriva il pane alla nocciola, che Carlo Alberto aveva commissionato ai cuochi delle truppe per rifocillare i soldati, facile da trasportare e ricchissimo di nutrimento, con noci acciughe, burro e uova. Segue la biova classica piemontese, un pane bianco tipico che più nessuno fa, presi come siamo dalla moda delle pagnotte grandi con farine scure, è preparata con lievito di birra, stesa a mano, arrotolata e spezzata e deve gonfiare all’interno per essere come una volta. E poi è il tempo delle lumache di vigna nel loro lettino di polenta gialla e saraceno, da scoprire tra le foglie di insalata, come a riportarle nel loro habitat anche nel piatto.
E quando arriva la vacca podolica la rivoluzione è fatta: quel Barolo che è sempre andato con la il brasato e la sua salsa, che anzi era il perfetto contraltare di questi piatti succulenti e cremosi, e aiutava a renderli ancora più rotondi, scompare e ricompare come perfetto abbinamento di una carne non piemontese (sacrilegio) e semplicemente grigliata. Lì, in tutto il suo splendore, si erge il Barolo in tutto il suo nuovo e dirompente spessore. Non più comprimario della perfetta domenica piemontese, fatta di carne, salse e chiacchiere per bene, ma protagonista elegante e lieve, austero e pervasivo, raffinato e musicale.
Cancellate le nostre certezze sull’abbinamento ideale, scardinato il territorio, rilanciate le verdure, ma in una nuova veste. Confermata la grandezza di una mano che quando tocca sa cosa e come fare per stupirci, anche quando serve su una tavola da tre stelle Michelin i biscotti morbidi per fare scarpetta nello zabaione appena tiepido.
Scommettiamo che nei prossimi anni sarà tutto un florilegio di piatti che uniscono tradizione contadina e cucina borghese? Ricordiamoci da dove è partito il trend: perché se seguire le mode e raccontarle non è facile, tracciare la strada è privilegio di pochi.