La terza via dei riformistiIl Governo Draghi e la sinistra che vuole vincere (non perdere bene)

Tra un bipolarismo immaturo e la ricaduta in una debole palude proporzionalista ci può essere una nuova alternativa politica: un maturo centrosinistra che si concepisca e si promuova come interprete e continuatore dell’esperienza del presidente del Consiglio. L’intervento di Enrico Morando all’Assemblea di Libertàeguale di oggi a Orvieto

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Pubblichiamo il discorso di Enrico Morando durante l’Assemblea di Libertàeguale a Orvieto

Questa sarà la prima Assemblea di Orvieto di Libertàeguale in cui non prenderà la parola Emanuele Macaluso. Il vuoto che ha lasciato – tra noi e per noi – è tanto grande quanto il contributo che ha saputo darci in questi lunghi anni di lavoro politico-culturale.

Ogni volta, intervenendo ad Orvieto, ha iniziato ringraziando Libertàeguale perché – per usare le sue parole – «questa organizzazione ha la vocazione del confronto, del consenso e del dissenso. Mentre i partiti hanno perso questa vocazione». E ogni volta ci ha sospinto ad affrontare a viso aperto i nuovi problemi proposti alla sinistra e alle forze popolari dal vorticoso modificarsi della realtà, senza coltivare nostalgie per il passato, per positivo che lo considerasse.

In troppi, dopo la morte, hanno descritto un Macaluso critico verso il presente solo perché impegnato nella acritica esaltazione della straordinaria vicenda politica del PCI e della sinistra del passato. No. Emanuele criticava duramente il modo in cui era stata gestita l’innovazione politica, specie dopo l’89. Non certo la scelta di innovare. Perché dell’innovazione aveva visto tra i primi l’esigenza, sempre sforzandosi di indicare le difficili strade che si sarebbero dovute percorrere per condurla verso l’esito sperato.

Vorrei dare prova di questo mio giudizio facendo parlare Emanuele, in due occasioni molto lontane, tra di loro, nel tempo: la prima è una sua relazione – in verità, un vero e proprio documento – per una riunione dell’Area Riformista del PDS nell’ottobre del 1994. La seconda è l’intervento di Emanuele alla nostra Assemblea del 2019, l’ultima cui la sorte ha voluto che potesse partecipare.

Nell’ottobre del 1994, Emanuele è il coordinatore dell’Area Riformista del PDS, svolge cioè un decisivo ruolo di dirigente politico del nuovo partito pluralista nato dalle radici del PCI. Lungi dall’aver «lasciato la sua quotidiana attività di dirigente politico» – come pure è stato scritto – Emanuele dirige una delle più importanti correnti interne al nuovo partito. 

Ma – ecco la vocazione ad innovare e a governare il cambiamento – propone ai suoi membri di «valutare se esistono ancora le ragioni di una presenza come Area o se è venuto il momento di rinnovare la dialettica interna al partito». Due le ragioni di fondo della proposta di Macaluso:

a – il limite di cultura politica della stessa Area Riformista, dove «è mancata una riflessione più generale su cosa possa essere il riformismo nell’epoca attuale, con classi sociali del tutto diverse da quelle in cui si formò una cultura riformista socialista in Italia e in Europa… Un’epoca in cui sono emerse nuove forze e culture che costituiscono o possono costituire un arricchimento della tradizione socialista…».

E b – l’emergere nel PDS, dopo la sconfitta del 1994, di una critica al segretario D’Alema, non già per aver «allacciato un rapporto col centro», ma per averlo fatto «in un’ottica tradizionale, per una sinistra legittimata a governare grazie ad un accordo col centro». «Mentre – scrive Macaluso – non c’è un’iniziativa per fare del PDS un partito che abbia, in sé medesimo, parte di questo centro-sinistra, ora su entrambe queste due fondamentali questioni, nel PDS e nella sua area di influenza, ci sono personalità e forze che hanno una visione vicina a quella dell’Area Riformista».

«La quale – continua Macaluso – deve essere pronta a sciogliersi per lavorare con altri alla determinazione dei cambiamenti di cultura e di linea politica che consentano al PDS di svolgere davvero la funzione originaria che si era assegnato, di asse dell’alternativa di governo al nuovo centro-destra di Berlusconi».

Dunque, con parole chiare e senza alcuna ambiguità: PDS partito «esso stesso di centrosinistra». E la non autosufficienza della cultura politica del riformismo socialista a fronte dell’emergere di nuove sensibilità individuali e sociali, liberaldemocratiche e radicali, come quelle del femminismo e dell’ambientalismo.

Questo è il Macaluso che noi abbiamo conosciuto ed amato: impegnato fino all’ultimo respiro – con o senza tessera di partito – a progettare il nuovo, senza cedimenti al novismo propagandistico e di maniera, ma lontanissimo dal conservatorismo nostalgico della sinistra che vive per testimoniare la sua alterità sistemica.

Con lo stesso spirito, molti anni dopo – nel 2019 – Emanuele ha posto un problema cui abbiamo dedicato tante energie: quello dell’asse della cultura politica del centrosinistra. Due anni fa ad Orvieto – esattamente il 28 settembre 2019 – in un suo intervento identificava «il PD come l’unica forza democratica, di centrosinistra, con la possibilità di giocare un ruolo».

Ma, al tempo stesso, lo definiva un «aggregato elettorale senza un asse politico-culturale. Un requisito necessario, che deve essere leggibile, per poter costruire un radicamento sociale e per fondarvi il superamento della drammatica contraddizione in cui il PD si dibatte, tra la sua fondamentale funzione politica di governo, che ha salvato l’Italia dal baratro in cui la stava precipitando il governo dei due populismi, e l’esiguità del suo consenso elettorale».

Che si condivida o no questo giudizio, è comunque evidente che – anche in questo caso – Emanuele non indulge ad alcuna nostalgia. Non ci dice che l’asse politico-culturale di cui ci si deve dotare è, per l’essenziale, quello sul quale ha e abbiamo camminato in passato. 

Come se bastasse qualche aggiornamento dello spartito e qualche interprete più giovane. No. Ci sollecita invece ad uno sforzo ulteriore di innovazione.Perché un asse di cultura politica ci vuole. E perché, per trovarlo, la conoscenza e l’esperienza del passato possono soltanto aiutarci a non ripetere gli stessi errori.

La nuova narrazione della sinistra liberale
Per questo, anche in omaggio ad Emanuele, voglio cominciare da qui. Dal nuovo paradigma della sinistra liberale.

Che ci fosse bisogno di questo – di un nuovo paradigma teorico e di una nuova agenda della sinistra lato sensu “socialdemocratica“- avremmo già dovuto capirlo alcuni decenni fa, alla fine dei “30 gloriosi“ del 900, quando i nostri sforzi per difendere le conquiste del passato non risultarono efficaci, denunciando la nostra impotenza contro l’indebolimento progressivo del ritmo di crescita, l’inflazione che conviveva con la stagnazione da rallentamento della produttività, la disoccupazione che diventava strutturale e non sembrava scalfibile con le manovre di spesa pubblica in deficit a sostegno della domanda aggregata.

All’inizio, paradossalmente, non ci aiutarono a capire che la fase stava mutando le numerose vittorie elettorali, su entrambe le sponde dell’Atlantico. Vittorie che finirono per dare credito all’ipotesi di una fuoriuscita “da sinistra“ sia dalla crisi delle socialdemocrazie, sia dal collasso del socialismo reale. Il risveglio sarà di quelli che non si dimenticano: Margaret Thatcher sconfigge pesantissimamente il candidato premier – molto “di sinistra” – Michael Foot, togliendo ogni dubbio circa il carattere permanente e stabile dell’egemonia ormai conquistata dalla nuova destra neoliberista.

Sarà lunga la fase del predominio neoliberista, riassumibile attraverso le frasi celebri dei suoi due campioni più noti: «Il governo non è la soluzione del nostro problema. Il governo è il problema», di Ronald Reagan. E quel «there is no alternative» (da cui l’appellativo di TINA), che Margaret Thatcher usava per dire che la sua idea di capitalismo chiudeva definitivamente i conti con la sinistra e si collocava «alla fine della storia».

Ci fu, è vero, il tentativo di reagire che va sotto il nome di Terza via, a me – credo di poter dire a noi – tanto caro. Oggi c’è chi – dopo essersi concesso, in quegli anni, qualcosa di più di un cenno alla “rivoluzione liberale“ – fa pubblica ammenda per quello che considera un “cedimento“, non esitando a proclamare l’estraneità alla tradizione della sinistra dei protagonisti di quel tentativo di reazione, peraltro elettoralmente plurivittorioso: Clinton, Blair e Schroeder vinsero e rivinsero la competizione per il governo nei loro Paesi.

Non mi pento della mia convinta adesione a quella stagione, e la rivendico come l’unico tentativo serio di fare i conti con l’egemonia neoliberista. E mi dichiaro senz’altro d’accordo con Salvati e Dilmore che – dopo aver messo in evidenza che l’alternativa a Blair, Schroder e Clinton era rappresentata da una sinistra nostalgica e impotente – usano la vicenda della Terza via come un caso di scuola del peso della nuova egemonia anche sugli avversari della forza politica e culturale che è riuscita ad affermarla. 

È valso per le forze di destra nella fase della egemonia socialdemocratica. È valso per la sinistra nella fase di egemonia del neoliberismo. Perché questo è il bello della vera egemonia: far fare anche agli altri ,che pure restano sé stessi, almeno un po’ di quello che tu vuoi. Aggiungo che – lungi dal motivare un ridicolo giudizio sul “tradimento“ dei dirigenti delle forze chiamate ad operare in un contesto di egemonia ostile – il successo dei leader riformisti della Terza via segnala doti di leadership e di visione assolutamente non comuni e (purtroppo) molto difficili da replicare. L’errore loro e nostro fu quello di pensare che si trattasse di un approdo ad una nuova fase di egemonia della sinistra.

Non si tratta di un’inutile riflessione su ciò che è stato: il presente ci parla del fallimento del neoliberismo, e dunque dell’apertura di una finestra di opportunità per la sinistra. Ma nulla è già stato scritto, circa il carattere della fase che da quel fallimento prenderà le mosse. 

Quando i “30 gloriosi“ volgono al termine, e si manifestano problemi che le ricette socialdemocratiche non sono in grado di risolvere, la destra non ripropone quelle della sua precedente fase egemonica, ma cambia radicalmente il suo paradigma, accreditandosi come capace di un nuovo disegno di relazioni tra individuo e società (quella che, per Thatcher, “non esiste“), tra Stato e mercato (dove il secondo si autoregola e ha solo bisogno che il primo “si tolga di mezzo“).

Allo stesso modo, oggi, per la sinistra: la Grande Recessione iniziata nel 2008 e la pandemia hanno fatto emergere i limiti insuperabili della “visione delle cose“ neoliberista. Ma quella parte della sinistra che la fa facile, perché tutti ora chiedono più Stato, vogliono più spesa pubblica e invocano guerra alla disuguaglianza, sicché basterà apportare qualche aggiustamento a quello che abbiamo sempre fatto per scoprire quello che faremo e che funzionerà, beh…si sbaglia di grosso. 

Non solo perché le ricette del passato erano coerenti con le condizioni di contesto di allora, e non lo sono con quelle di oggi – una per tutte, la dimensione nazionale sia dei fondamentali problemi, sia delle corrispondenti soluzioni di allora – ma anche e soprattutto perché al mondo non ci siamo solo noi: le forze di ispirazione nazionalpopulista – quali che siano la loro denominazione e la loro collocazione nello spettro destra-sinistra dello schieramento politico – sono pronte ad approfittare delle delusioni e della rabbia popolare per l’inefficacia delle risposte neoliberiste ai problemi presenti, con le loro soluzioni facili.

Protezionismo contro la “cattiva“ globalizzazione, chiusura nei confini nazionali contro l’immigrazione e la delocalizzazione delle imprese, sussidi e controlli a raffica, cacciata dei “colpevoli“ (facili da individuare: quelli che c’erano prima, chiunque fossero) e la loro sostituzione con i portavoce del popolo sano (e se le elezioni non lo fanno, è perché sono truccate).

Il fallimento del neoliberismo
Ma andiamo con ordine: il neoliberismo ha veramente fallito? Se si deve rispondere guardando alla frequenza con cui la minaccia del neoliberismo compare nei documenti di una parte della sinistra, beh… si deve concludere che non c’è alcun fallimento: il liberismo è ben vivo e lotta contro di noi. Recentemente, in Italia, ben 126 economisti, riprendendo l’iniziativa del vicesegretario del PD, hanno firmato un documento in cui si mette in guardia il Governo Draghi contro il rischio insito nella nomina di due economisti definiti “liberisti“ in un organo tecnico di supporto alla programmazione (a proposito: uno di loro è qui con noi e colgo l’occasione per rinnovargli la mia stima).

E invece il fallimento c’è. Ed è profondo: «I leader repubblicani dovranno ammettere che il capitalismo e il libero mercato non sono una religione… Dovremmo essere pazzi per adorarli. Il nostro sistema è stato creato da esseri umani per il bene degli esseri umani. Noi non esistiamo per il mercato. Tutto l’opposto.Qualsiasi sistema economico che indebolisce e distrugge famiglie non vale la pena di essere adottato. Un sistema del genere è nemico di una società sana».

No. A pronunciare queste parole – nel 2019 – non è stato Jeremy Corbyn o Bernie Sanders. È stato Tucker Carlson, uno dei conduttori di Fox news, liberista fino a ieri ed oggi convertito alle chiusure protezioniste e ad una qualsiasi forma di statalismo.

Se mi si obietta che la fonte non è particolarmente autorevole, ricorrerò – come Fereed Zakaria nel suo ultimo libro – al tempio dell’ortodossia liberista, il Financial Times, che, nel suo editoriale del 3 aprile 2020, scriveva: «La crisi odierna sta chiarendo fino a che punto tante società ricche non rispettano l’ideale secondo il quale per chiedere un sacrificio collettivo devi offrire un contratto sociale che avvantaggi tutti». E concludeva: «I governi dovranno accettare un ruolo più attivo nell’economia… Devono considerare la funzione pubblica un investimento più che una passività…». 

Il rovesciamento del già citato motto reaganiano sulla natura del governo “problema e non soluzione“ non potrebbe essere più esplicito e netto. Infine, sempre crescendo in autorevolezza, posso citare i premi Nobel per l’economia Abhijit Banerjee ed Ester Duflo, che scrivono: «Oggi persino il Fondo Monetario Internazionale, bastione dell’ortodossia della crescita sopra ogni altra cosa, riconosce che sacrificare i poveri per promuovere la crescita è stata una politica sbagliata e impone ai suoi team nei singoli paesi di includere la disuguaglianza tra i fattori da prendere in considerazione al momento di fornire raccomandazioni di politica economica e delineare le condizioni da osservare per poter ricevere l’assistenza del Fondo stesso».

Se le cose stanno così (e stanno così), perché una parte della sinistra, soprattutto in Italia, è così impegnata a sostenere la forza, la permanente incombenza e la capacità di iniziativa di quel “liberismo” che, per usare un eufemismo, è universalmente considerato in cattiva salute?O l’attualità della lotta contro l’austerità, mentre Biden vara il più mastodontico piano di spesa pubblica in deficit della storia degli Stati Uniti e l’Unione Europea sospende sine die le regole del Patto di stabilità e approva il Next generation EU, finanziato con l’emissione di debito europeo? 

O, infine, la centralità dello scontro politico e sociale sulla quantità del governo, proprio quando – grazie ai giganteschi piani di intervento pubblico varati in risposta alla crisi – l’attenzione è da rivolgersi alla sua qualità (non Stato grande o Stato piccolo, ma Stato buono), per far sì che la spesa pubblica sia indirizzata a quegli investimenti che innalzano il potenziale di crescita dell’economia, ben al di là del breve periodo in cui la spesa pubblica garantisce comunque un elevato moltiplicatore da aumento della domanda aggregata?

Non può essere solo la forza di un’abitudine, consolidatasi al tempo della effettiva egemonia liberista o dell’austerità ordoliberale europea. Questa ansia di vedere sostenitori del liberismo ovunque – anche tra i riformisti come me e molti di noi, che saremmo liberisti inconsapevoli – è in realtà un sintomo di difficoltà.

Se pensi che non ci sia sinistra fuori dal vecchio paradigma, ma vedi lucidamente i suoi limiti nel misurarsi coi problemi attuali – la globalizzazione è una realtà e il dinamismo del capitalismo continua ad essere assicurato dalla distruzione creatrice, ma “qui” paghiamo i prezzi della distruzione, mentre “là“ la creazione produce un enorme aumento del numero dei salariati e, per molti, l’ingresso nel benessere – riduci consapevolmente la tua ambizione. 

Non cerchi una nuova narrazione egemonica, ma un ruolo dignitoso dentro un contesto sospeso tra ciò che c’era – la stagione dominata dal neoliberismo – e l’incertezza su ciò che ci sarà, sui cui caratteri senti di non poter agire, se non in chiave di testimonianza del tuo sistema di valori alternativi.

La sinistra a obiettivo unico: redistribuzione
Nasce da qui, a mio parere, la scelta dell’obiettivo “unico” della redistribuzione. E nasce da qui la centralità della elaborazione teorica di Piketty, cui giustamente Salvati e Dilmore dedicano un intero capitolo del loro ultimo libro. La pregevole ricerca di Piketty fornisce un quadro documentato e impressionante della proprietà nel presente e nel passato più o meno lontano, ed avanza proposte per la graduale costruzione di una società nella quale le disparità nella proprietà della ricchezza vengano appiattite fino a scomparire nel lungo periodo. 

Malgrado l’ambizione del titolo dei suoi libri – “il Capitale nel XXI secolo e Capitale ed ideologia” – Piketty non considera, marxianamente, il capitalismo come un motore della trasformazione economica e sociale, ma – ha scritto Pisani-Ferry – «una macchina di accumulazione della ricchezza, analizzata quasi esclusivamente dal punto di vista distributivo.…Il ciclo economico nominato appena; le trasformazioni tecnologiche sono esogene».

Nell’avanzare le sue proposte per l’agenda di una sinistra che aspiri ad essere efficace, Piketty è conseguente: redistribuzione e ancora redistribuzione. Ignorando o quasi – come ha scritto sempre Pisani-Ferry – «le conseguenze delle sue proposte per i tassi di risparmio, per la dinamica degli investimenti o l’innovazione. E per quel che riguarda la gestione delle imprese, la distribuzione sembra essere la sola lente utilizzata». In sostanza, verrebbe da dire, semplificando molto (ma forse non troppo): senza preoccuparsi che sia prodotto ciò che va distribuito.

Perché – come notano Salvati e Dilmore – «l’idea che si possano facilmente redistribuire in modo significativo redditi e ricchezze con un gioco a somma zero, sottraendole all’1% o al 10% alla sommità della piramide, spesso non tiene conto delle ripercussioni che essa avrebbe su investimenti e produzione, soprattutto in un mondo in cui il capitale è molto più fluido e mobile che nel passato. Interventi significativi per ridurre le disuguaglianze sono necessari, ma vanno fatti tenendo conto delle loro possibili conseguenze».

Ora, a parte il fatto che se ti occupi solo di redistribuzione e non di produzione, di occupazione, di inflazione, di innovazione tecnologica e di competizione globale, non riesci a spiegarti neppure le enormi difficoltà incontrate dalle forze della sinistra nel definire una risposta credibile alla Grande Recessione, che pure incrinava profondamente l’egemonia liberista, è proprio l’adesione acritica a questa analisi teorica quella che spiega la prevalenza – nelle proposte di larga parte della sinistra italiana e del PD in particolare – dell’obiettivo della redistribuzione su quello della crescita, della democrazia economica, dell’aumento dei salari, della partecipazione delle donne alle forze di lavoro, della riforma delle istituzioni economiche fondamentali, a partire dai sistemi di Giustizia e di Istruzione.

Questa considerazione ci conduce ad una prima, importante conclusione sui caratteri del nuovo paradigma teorico e dell’agenda (Salvati e Dilmore chiamano il loro insieme “narrazione“) di quella sinistra nella quale io – e penso molti di voi – mi riconosco.

Acquisito che nella nuova fase, aperta dalla Grande Recessione e dalla pandemia, lo Stato avrà un ruolo più attivo di quello considerato necessario nella lunga stagione dell’egemonia liberista, a quale obiettivo sarà necessario ispirare questo attivismo? Piketty e la parte di sinistra che si ispira ai suoi lavori e trae dalla sua elaborazione i criteri di selezione delle priorità, non hanno dubbi: redistribuzione della ricchezza patrimoniale. 

I liberali di sinistra – o liberalsocialisti, se si preferisce – ispirano la loro agenda ad un obiettivo significativamente diverso: lo Stato deve essere più attivo al fine di favorire un elevato ritmo di crescita economica, tale da rendere possibile una più equa diffusione del benessere – anche grazie ad adeguate politiche redistributive – assumendo a riferimento le condizioni di vita della maggioranza dei cittadini, a partire dai più deboli e dai più esposti a rischi di esclusione.

C’è chi invita a non esagerare con le distinzioni: se tutti – al limite, anche la destra sinceramente liberale – riconoscono che nel prossimo futuro ci sarà bisogno di più Stato, ci si accontenti di questo e si lavori per dargli corpo e sostanza, a questo intervento pubblico. E invece no.

Perché la distinzione, anche e soprattutto a sinistra, riguarda proprio questo corpo e questa sostanza. Se, nel bel mezzo dello sforzo per l’elaborazione del Pnrr, il PD avanza come prioritaria la proposta della dote patrimoniale di 10.000 € per i giovani che compiono 18 anni, non può essere per un’alzata di ingegno improvvisa e priva di fondamento. O una trovata propagandistica. Troppi si sono concentrati sulla contestuale proposta di innalzamento dell’imposta di successione, capace di finanziare la “dote“. 

A dire che questo non era il momento di prendere, ma quello di dare, ci ha pensato il Presidente Draghi. Ma il cuore della proposta non è l’imposta di successione. È la dotazione patrimoniale dei giovani. Ed è qui che sta l’errore: se pensi ai giovani obbedendo alla priorità della redistribuzione della ricchezza patrimoniale, proponi la dotazione universale di patrimonio, per quanto piccolissima (ma bisogna pur cominciare). Esattamente come insegna Piketty (anche se – va detto – Piketty propone una dote ben più consistente).

Se pensi ai giovani e assumi la priorità della crescita e della diffusione del benessere, anche per quanti tra loro hanno avuto in sorte di nascere in una famiglia meno dotata di ricchezza e istruzione, scegli di partire dalla realtà che, qualche anno fa, il professor Daniel Markovits illustrò ai laureati di Yale.

«Stimato che l’investimento aggiuntivo ricevuto dai figli dei ricchi (rispetto a quelli del ceto medio) equivale ad una eredità tra i 5 e i 10 milioni di dollari», Markovits concluse che «i figli delle famiglie meno abbienti o anche del ceto medio non possono competere […] con soggetti sui quali è stato compiuto questo investimento massiccio, prolungato nel tempo, pianificato e calcolato, sin dalla nascita o addirittura da quando erano ancora nel grembo materno».

Come scrive Branko Milanovic, cui debbo la scoperta di questo esemplare discorso del professor Markovits, sconvolgere l’equilibrio che si è creato attorno a questa tragica ingiustizia e a questo abisso di disuguaglianza nelle chance di vita e di felicità dei giovani e dei bambini che nasceranno, è un compito arduo, al limite dell’impossibile. Ma la sinistra non può esigere da sé stessa niente di meno, se si prende sul serio come agente del cambiamento che coniuga crescita, diffusione del benessere ed effettive pari opportunità per i meno fortunati per nascita.

Se si assegna una più modesta funzione di correzione degli squilibri patrimoniali, lasciando che lo sviluppo delle forze produttive e la diffusione delle effettive opportunità di parteciparvi sia affare di altri, allora può restringere il suo campo di applicazione alla redistribuzione. Altro infatti, che dote patrimoniale: quanto grande dovrà mai essere, per conseguire effettivi risultati in termini di pari opportunità? 

È il sistema di istruzione e formazione pubblico che va radicalmente modificato, per raggiungere livelli di efficienza sociale tali da robustamente riequilibrare le opportunità dei bambini più sfortunati. E dovremo riuscire a convincere tutti che la pretesa di continuare con una scuola pubblica che fa parti uguali tra disuguali, non riconoscendo dispari opportunità positive a chi parte troppo indietro, è un acceleratore della disuguaglianza. Esattamente l’opposto della missione sociale che la sinistra tutta, almeno a parole, le assegna.

Una nuova versione del conflitto tra riformisti e massimalisti?
Tenendo insieme crescita e diffusione del benessere, la sinistra liberale supera il fondamentalismo di mercato perché – come hanno scritto Salvati e Dilmore – «incorpora il mercato nella società», non impedendo la distruzione creatrice che è alla base del dinamismo capitalista, ma fornendole un contesto che riduce drasticamente – nel sistema ideale, elimina – le sofferenze sociali della distruzione, allargando al contempo le basi sociali della creazione.

A me pare difficile non vedere che c’è una parte della sinistra che – in modo trasparente ed esplicito, o scegliendo di ignorare il tema – nega o trascura o sottovaluta il rilievo di questa “incorporazione“ del mercato nella società che aspira a costruire, mostrando di privilegiare su ogni altro l’obiettivo dell’appiattimento delle disparità proprietarie, come via per giungere ad una società buona.

Cambiato il molto che c’è da cambiare, la differenza tra l’orientamento ideologico-culturale di questa sinistra e quello della sinistra liberale è dunque abbastanza profonda per giustificare il parallelo con la contrapposizione – nella socialdemocrazia del Novecento – tra riformisti e massimalisti. Nei Paesi dove la sinistra ha una più lunga e consolidata tradizione di governo, queste marcate differenze hanno imparato ad esprimersi compiutamente – e a misurarsi tra di loro con metodo democratico – all’interno di un grande partito a vocazione maggioritaria. 

In un Paese come l’Italia, dove si è giunti all’alternanza, decisa dagli elettori, tra centrosinistra e centrodestra, con un enorme ritardo, questa differenza tende spesso a generare scissioni, in cui – paradossalmente – la sostanza del conflitto, che pure c’è, viene oscurata da debordanti personalismi e indisponibilità ad accettare l’esito della competizione democratica interna al partito almeno potenzialmente dotato di vocazione maggioritaria. Così spingendo i militanti a temere l’esplicitazione delle diverse posizioni e l’aperta competizione tra le stesse, ritenendole foriere di nuove rotture. Col risultato che il confronto delle idee si impoverisce nel conformismo o nel silenzio.

La democrazia economica
Vorrei far notare che l’assunzione del punto di vista che sto proponendo per la sinistra liberale le consente – paradossalmente, ma non troppo – di misurarsi con più efficacia con il tema stesso della riduzione della concentrazione della proprietà nelle mani di pochi.

Mentre imposte sul patrimonio con aliquote espropriatrici, finalizzate alla redistribuzione del capitale a chi oggi non ne ha o ne ha troppo poco, hanno scarse probabilità di essere approvate in Parlamento, proposte efficaci di democrazia economica, volte ad attribuire quote crescenti di proprietà delle aziende ai lavoratori e a privilegiare fiscalmente il risparmio popolare investito in attività produttive, potrebbero più facilmente trovare una maggioranza che le approvi. 

Aiuterebbero la crescita economica, riducendo la quota di risparmio improduttivo (il cui eccesso Summers colloca alla base della paventata “stagnazione secolare“); e favorirebbero il rilancio della contrattazione e la ripresa della forza e della capacità di rappresentanza delle organizzazioni sindacali.

Guardiamo alla concreta situazione dell’Italia: la ripresa economica è forte, trainata dall’incremento della spesa pubblica in deficit (il saldo primario dello Stato è peggiorato di 10 punti di PIL in 18 mesi, dal gennaio 2020 al giugno 2021, un deterioramento così rapido mai visto prima). Si materializza così, in questi mesi, l’effetto espansivo della spesa in deficit. E non solo: almeno nel primo anno, la crescita del PIL, a parità di pressione fiscale, aumenta le entrate, che possono a loro volta contribuire a ridurre il rapporto tra debito e PIL. 

Ma, nel secondo anno, la spinta della spesa pubblica si azzera e il debito contratto torna a crescere, confermando – una volta di più – che non ci sono pasti gratis. A meno che… a meno che il deficit aggiuntivo sia stato usato per investimenti capaci di incrementare il Prodotto potenziale, cioè le capacità di crescere dell’economia. È quanto contiamo siano in grado di fare gli investimenti e le riforme del Pnrr del Governo Draghi.

Il ciclo di investimenti necessario per realizzare una crescita significativa e duratura non può tuttavia realizzarsi con l’impiego delle sole risorse pubbliche. È fondamentale che ad esse si aggiungano quelle private, comprese quelle costituite dal risparmio di milioni di famiglie italiane. Le quali, negli stessi diciotto mesi della pandemia, hanno accresciuto la loro liquidità – in sostanza, disponibilità in contanti – quasi dell’8%. Il volume di questa liquidità è così arrivato a superare, nel totale, il PIL di un grande Paese europeo come la Spagna.

Per accrescere stabilmente il Prodotto potenziale e, con esso, la disponibilità di posti di lavoro, per innalzare il reddito delle famiglie risparmiatrici – oggi propense alla liquidità a causa della radicale incertezza delle prospettive – è vitale che una quota significativa di questo ingente risparmio sia indotta ad impiegarsi in attività produttive di beni e servizi. Se gli strumenti messi in atto nel recente passato – come i Pir – non bastano, dobbiamo studiarne altri, più efficaci.

Potrebbe servire, a vincere l’avversità al rischio, la presenza di una garanzia dello Stato – su di un rendimento pari a zero, sostanzialmente identico, oggi, a quello dei titoli pubblici – per determinate classi di investimenti di modesta entità delle famiglie, come ha proposto Branko Milanovic. Ma, soprattutto, sarebbe decisiva l’iniziativa del sindacato per una grande vertenza nazionale che – usando tutte le soluzioni tecnicamente disponibili, anche in rapporto alle dimensioni dell’azienda – apra finalmente le porte alla partecipazione dei lavoratori alla proprietà e alle decisioni strategiche dell’impresa.

Dalla partecipazione dei lavoratori agli utili di impresa, fondata sulla trasparente contrattazione tra le parti, realizzabile anche nelle imprese più piccole, salendo via via, per complessità degli strumenti, fino all’azionariato nelle società quotate e alla presenza dei rappresentanti dei lavoratori nel consiglio di sorveglianza. Non mancano, in proposito, né i buoni esempi, né le buone idee.

È mancata, fino ad oggi, la voglia di entrare in una fase nuova, perché se è vero – come scrivono Salvati e Dilmore – che «non c’è nuova egemonia della sinistra liberale, senza un nuovo protagonismo del sindacato», è almeno altrettanto vero che solo un sindacato che accetta di sporcarsi le mani nei difficili ingranaggi della produzione di beni e servizi nell’economia globalizzata della società della conoscenza, può tornare a svolgere bene le funzioni in cui non ha sostituti: rappresentare e contrattare.

Di fronte al primo urto della pandemia, gli accordi sindacali per garantire la riapertura delle fabbriche in sicurezza sono stati un faro nella notte e sono diventati un riferimento per tutti. I distinguo, le dismissioni di responsabilità, l’invocazione dell’intervento della legge su Green pass e vaccini, costituiscono oggi fonte di pesante delusione. Ma il diffuso disagio dei militanti e gli accordi aziendali che sviluppano quelli conclusi nella prima fase della pandemia fanno sperare in un recupero sia della capacità di rappresentare la maggioranza dei lavoratori, sia di contrattare soluzioni efficaci per la sicurezza dei lavoratori e dei cittadini.

La sinistra e i lavoratori meno qualificati
La combinazione di crescita economica, via “incorporazione“ del mercato nella società, democrazia economica ed effettiva promozione delle ragioni dei più deboli compone un’agenda socialmente efficiente per la sinistra che vuole costruire un rapporto positivo con quella parte del mondo del lavoro che ha bassi livelli di istruzione ed ha sofferto di più sia prima della pandemia (è più esposta a subire le conseguenze sociali della “distruzione“ capitalista), sia durante (è quella che non ha potuto lavorare da casa, perché lavora con le mani: solo il 3%  dei lavoratori che non hanno finito le superiori ha potuto fare smart working ), sia dopo (le “chiusure” sono state più dure e più lunghe per i settori dove la presenza dei lavoratori meno istruiti è più intensa (ristorazione, pulizie).

Prima di venire al merito, una rapidissima premessa sulla “sinistra dei più istruiti“. Uno studio di Kushner Gadarian, Wallace Goodman e Pepinsky del 2020, volto a determinare il miglior fattore predittivo della buona o cattiva disposizione dei cittadini americani a lavarsi le mani frequentemente, evitare i contatti con gli altri, indossare la mascherina, ecc., ha fatto emergere che la partigianeria politica è, tra tutti, il migliore. Richiamo queste conclusioni -riprese da Fareed Zakaria – per sottolineare l’ovvio: il problema, per la sinistra, non è quello di avere acquisito, col tempo, una forte capacità di rappresentanza delle persone più istruite. In fondo, questo è uno dei frutti più positivi della stagione socialdemocratica: la gran parte dei laureati più anziani di oggi – i babyboomer – sono nati in famiglie dove nessuno dei due genitori aveva potuto studiare altrettanto a lungo. Dunque, la sinistra si è ben meritata questa migliore (rispetto alla destra) capacità di rappresentanza.

Il problema è la progressiva separazione tra i lavoratori a bassa istruzione odierni – radicalmente diversi dalla omogenea classe operaia fordista – e la sinistra. È una separazione che non si supera con la propaganda e le soluzioni facili. Prendiamo la diatriba in corso sulla proposta del Ministro del lavoro in materia di tutela dei lavoratori delle aziende medio-grandi che chiudono siti produttivi in Italia, per delocalizzare. La proposta, pur ispirata al conseguimento di obiettivi condivisibili, presenta almeno due seri limiti di impostazione: il primo – di cui hanno scritto Marco Bentivogli e Maurizio Del Conte (che ringrazio per aver accolto il nostro invito ad essere con noi, qui ad Orvieto), è quello di non aver preventivamente sottoposto a verifica il precedente intervento legislativo in materia – il cosiddetto Decreto Dignità, in applicazione dal 2018 -, che presenta in qualche caso soluzioni non lontane da quelle della bozza odierna: anche lì, ad esempio, si prevedevano sanzioni economiche «come leva per indurre un’impresa a rimanere in vita», che non hanno dato buona prova di sé, né nella maggiore tutela di chi un lavoro con contratto a tempo indeterminato lo ha già, né nella tutela di chi il lavoro, per quanto a tempo determinato, lo ha perso (per colpa della pandemia e, qualche volta, per le disposizioni dello stesso Decreto Dignità).

Il secondo, più generale, è quello di non assumere a premessa di un intervento volto ad evitare comportamenti “pirateschi“ di imprenditori in difficoltà, un dato di realtà che riguarda gli interessi di imprenditori e proprietari di impresa che…vogliano rimanere tali: una parte molto significativa del valore di un’impresa è data dalla qualità dei lavoratori che vi sono impiegati (il cosiddetto capitale umano). Come ebbe a scrivere il premio Nobel Joseph Stiglitz, alle aziende non conviene pagare troppo poco, o trattare male i propri lavoratori, «per evitare di ritrovarsi nella posizione sintetizzata da quella vecchia battuta di epoca sovietica: loro fingono di pagarci e noi fingiamo di lavorare».

La strada del rafforzamento del lavoratore sul mercato, non tanto e in ogni caso non solo su “quel“ posto di lavoro che ha perso o rischia di perdere, resta la via maestra: l’assegno di ricollocazione, per sostenere contemporaneamente il reddito, la riqualificazione delle competenze e la ricerca del nuovo posto di lavoro -in un contesto di efficaci politiche attive, secondo l’esperienza del piano Hartz dei governi socialdemocratici in Germania, unisce il trasferimento pubblico (per garantire il reddito) ad un sofisticato insieme di servizi, gestiti sia dal pubblico, sia dal privato, sotto la regia del primo. È questo il treno che ci può portare in Danimarca.

Meno tasse sul lavoro delle donne
La fecondità dell’asse politico-culturale (per dirla con le parole di Macaluso) che sto proponendo emerge anche se ci confrontiamo con i temi della partecipazione delle donne alle forze di lavoro, del governo dell’immigrazione e del contrasto al riscaldamento globale.

I dati della demografia italiana li conoscete: accentuano le tendenze molto negative in atto in Europa. Nei prossimi trent’anni, il numero delle persone in età di lavoro si ridurrà del 23%, con un effetto prevedibile sul Prodotto pari a -5% già nel 2030, in crescita negli anni successivi. Non è lecito nutrire dubbi: un calo demografico di queste dimensioni e intensità nel tempo costituisce un formidabile ostacolo alla crescita economica, perché distrugge gli incentivi ad investire e, facendo venir meno i lavoratori più giovani e produttivi, riduce la produttività.

Una risposta efficace a questa tendenza al declino è costituita dalla immigrazione ben governata.Ne parlerò tra un attimo. Ma la risposta più immediata è data dal rapido innalzamento della partecipazione delle donne alle forze di lavoro. Si potrebbe parlare di soluzione giapponese: secondo i dati Eurostat, in Italia nel 2005 lavoravano 48,5 donne ogni 100 in età compresa tra i 20 e i 64 anni, mentre nel 2019 si è arrivati a 53,8. Nello stesso periodo, in Giappone -aggredito da una crisi demografica anche più grave della nostra (i giapponesi nutrono una avversione all’emigrazione ancora più marcata)- è passato da 61,7 donne al lavoro su 100 in quella fascia di età, a 75 donne su 100. Con un aumento molto sopra la media nella fascia di età tra i 34 e i 49 anni.

Se vogliamo evitare che la crisi demografica si traduca rapidamente in declino sociale, culturale ed economico, dobbiamo proporci risultati analoghi, “approfittando” del più basso punto di partenza che caratterizza il nostro Paese, non solo nelle realtà territoriali più arretrate, ma anche -nel confronto europeo-, nelle Regioni più sviluppate. Per ottenere risultati così rilevanti, la prima scelta è quella di rafforzare enormemente l’insieme dei servizi sociali che possono accompagnare le donne a lavorare fuori casa (tra l’altro, si tratta di servizi ad altissima intensità di occupazione femminile).

Dovrà essere riconosciuta priorità non solo al rafforzamento dei servizi sociali gestiti direttamente dalle pubbliche amministrazioni, ma anche a quelli regolamentati e incentivati dal pubblico, ma affidati alla gestione del privato, no profit e profit. In questo contesto, dovremo -anche noi di Libertàeguale- prendere molto sul serio le sollecitazioni che in questi ultimi anni ci sono venute da Aldo Amoretti a considerare l’urgenza di interventi -fiscali, regolatori e contrattuali- per il pieno riconoscimento e la valorizzazione sociale del contributo che le lavoratrici che si curano di persone molto anziane e non autosufficienti forniscono quotidianamente alla vita di milioni di famiglie.

Non si debbono tuttavia sottovalutare -nell’iniziativa per conseguire un rapido innalzamento della partecipazione delle donne alle forze di lavoro- gli incentivi economici e gli sforzi di rimozione dei fattori culturali che la ostacolano. Per questo, penso che la sinistra liberale dovrebbe porre tra le “sue” priorità la riduzione del prelievo Irpef sul reddito da lavoro delle donne rispetto a quello dei lavoratori maschi. Facendo tesoro della elaborazione di Andrea Ichino e del compianto Alberto Alesina, presentammo qualche anno fa una proposta di legge in questo senso. Accolta da grandi apprezzamenti formali, seguiti dalla più totale noncuranza. Forse, l’occasione del confronto che si sta aprendo sulla riforma fiscale -grazie al lavoro delle Commissioni finanze di Camera e Senato, una delle quali presieduta da Luigi Marattin, che è qui con noi e prenderà la parola- può essere quella giusta per proporre con più forza e con rinnovata combattività questa soluzione. Una soluzione, insisto, che cambia gli incentivi economici a favore del lavoro fuori casa delle donne, ma può avere anche un positivo effetto choc di tipo culturale. Forse, quest’ultimo, più importante del primo. Su questo qualificante obiettivo di riforma, un importante contributo ci potrà venire da Sandro Brusco, con la proposta che potrà illustrare lui stesso, collegandosi da remoto con la nostra Assemblea.

Il governo dell’immigrazione
In tema di governo dell’immigrazione, la sinistra liberale -se davvero persegue la conciliazione tra crescita economica, benessere per la maggioranza dei cittadini (a partire dai più esposti al rischio di esclusione), e sistema politico liberaldemocratico, non può continuare ad ignorare la realtà messa in evidenza da Branko Milanovic, nel suo Capitalismo contro Capitalismo: «Lo Stato nazione, lo stato sociale e la cittadinanza sono legati indissolubilmente… In questa nostra era globalizzata, si è delineato un chiaro conflitto tra lo stato sociale, l’accesso al quale si basa sulla cittadinanza, e la libera circolazione dei lavoratori… Se ai migranti viene concessa più o meno automaticamente la cittadinanza, ciò implica una diluizione della rendita percepita dagli attuali cittadini». È piuttosto evidente che la diffusa preoccupazione/ostilità dei lavoratori a più basso reddito e a bassi livelli di istruzione per le conseguenze della immigrazione, quando non per l’immigrazione in sé, ha questo robusto fondamento.

C’è una parte minoritaria della sinistra (France Insoumise, ad esempio)-ancora una volta, quella che persegue univocamente l’obiettivo della redistribuzione- che non esita ad interpretare queste preoccupazioni in chiave di ostilità più o meno esplicita alle migrazioni, in analogia a quella per il deflusso dei capitali. La maggior parte della sinistra tende invece ad oscillare tra istanze aperturiste di principio pressoché incondizionate e silenzi imbarazzati. In entrambi i casi, aprendo praterie all’iniziativa (e alla efficace propaganda) dei nazionalpopulisti. Poiché quest’ultima potrebbe farsi talmente forte da indurre ad una chiusura nella “fortezza Europa“ e nella fortezza “Stati Uniti d’America“, accentuando la tragedia della clandestinità e dei costi umani e sociali ad essa connessi, insieme ai problemi di carenza di lavoratori.

E poiché questa logica minaccia le società aperte dell’Occidente, mettendo a rischio il regime politico liberaldemocratico, la sinistra liberale dovrebbe prendere su di sé la responsabilità di delineare i termini di una soluzione in cui i diritti di cittadinanza concessi ai migranti conoscono una graduazione: dall’inizio tutti quelli in materia di lavoro, esattamente identici a quelli dei lavoratori nazionali (retribuzione, assicurazione contro gli infortuni e la malattia, iscrizione al sindacato), graduando l’attribuzione di altri diritti civili nel tempo e condizionandoli alla dimostrata adesione e al conseguente rispetto dei fondamentali diritti e doveri costituzionali. Come scrive Milanovic: “Non è questa la soluzione ideale… Ma abbiamo bisogno di un approccio realistico che prenda le opinioni del mondo e delle persone per quelle che sono e, entro certi limiti, elabori una soluzione praticabile“.

Riformismo ambientalista, contro il catastrofismo e l’ambientalismo di facciata
Insieme a “resilienza“-una parola che nessuno usava fino a pochi anni fa e che ora è mescolata a tutte le salse-, la parola “sostenibilità“ è probabilmente la più usata nel discorso pubblico contemporaneo. È un successo culturale degli ambientalisti, che crea condizioni favorevoli per interventi di tutela dell’ambiente e di contrasto al riscaldamento globale non più rinviabili.

È però un successo che presenta dei rischi, proprio sul terreno culturale e della comunicazione: la degenerazione in catastrofismo, «che può legittimamente indurre a fenomeni di rassegnazione o, ancora peggio, alla estremizzazione dei comportamenti» (se è già andata a finire male, tanto vale continuare come prima). E l’ambientalismo di facciata, che inonda di messaggi di sostenibilità -compreso l’annuncio di mirabolanti obiettivi a 30 anni, cui non corrisponde né la definizione di scelte di transizione praticabili a breve (nel tempo della responsabilità politica democratica), né un effettivo impegno di predisposizione delle misure di contesto che consentono una gestione socialmente equa della transizione verso un ambiente più “pulito“.

Utilizzando un articolo di Federico Testa, proverò a rendere più chiara l’idea del compromesso che sto proponendo attraverso l’esempio della “mobilità sostenibile“. Più in particolare, della mobilità individuale, con l’elettrico: in primo luogo, «spesso ci si dimentica…del problema delle reti di alimentazione,[…], che pretende innanzitutto che ci sia l’elettrificazione “verde“, se no ci limitiamo a spostare il problema territorialmente». Infatti, le reti che arrivano sotto i condomini debbono essere in grado di sostenere un carico più pesante. Questo implica che si facciano subito investimenti enormi. E dobbiamo ricordarci che gli investimenti vanno a finire nella bolletta, pagata da famiglie e imprese. Una bolletta che, di suo, prima di questi nuovi investimenti, è già tra le più care del mondo, ed incide significativamente sul reddito delle famiglie…

Questo (non tanto) piccolo esempio dimostra che se si vuole passare dalla pur utile “testimonianza“ dell’urgenza e gravità del problema a soluzioni praticabili, bisogna avere la pazienza, la competenza, la determinazione e la sensibilità sociale necessarie per costruire una strategia che tenga in un equilibrio dinamico un complesso di attori e interessi, pena l’insuccesso.

Non credo di sbagliare se dico che il ministro Cingolani, sia quando illustra il metodo con il quale è riuscito a convincere i Paesi del G 20, produttori dell’80% del gas serra globale, ad approvare a Napoli due risoluzioni importantissime (una sull’ambiente e una sull’energia); sia quando invita a non escludere il nucleare di nuova generazione dal novero delle soluzioni capaci di ridurre davvero le emissioni, adotta un approccio di questo tipo. E si merita per questo il convinto sostegno di quanti rifuggono sia dal catastrofismo demotivante, sia dal fondamentalismo del no, che alimenta pregiudizi contro tecnologie che possono fornire un rilevante contributo alla lotta contro le emissioni climalteranti.

La globalizzazione progressista: da chimera a progetto politico
Nel titolo della nostra Assemblea, abbiamo scelto di sbilanciarci verso una visione ottimistica del prossimo futuro. Non è solo la ben motivata speranza che i vaccini e la cooperazione internazionale nella ricerca delle cure ci facciano uscire dalla pandemia. È il fatto che si sta aprendo una prospettiva molto promettente sul versante della costruzione di nuove forme di governo globale.

Ricorderete il discorso che ci facemmo, qui ad Orvieto, due anni fa: la crisi della sinistra nasce da molti fattori, ma è prima di tutto una crisi di funzione. Se ha saputo e potuto imporre le sue ricette quando la distruzione creatrice del capitalismo aveva per teatro le singole nazioni, essa rimane come spaesata, coi suoi obiettivi di libertà eguale, quando la distruzione creatrice prende a teatro l’intero globo. Non c’è infatti nessun vero problema dell’epoca contemporanea che possa essere affrontato alla dimensione nazionale. Ma, per il governo globale, mancano gli strumenti, l’organizzazione, le politiche e le istituzioni.

Come ha scritto Pisani-Ferry, la dimensione economica della globalizzazione sembrava in grado di prevalere sulle sue altre dimensioni, quella della scienza, dell’informazione, della diffusa sensibilità sul cambiamento climatico, per non parlare della cooperazione delle istituzioni politiche, che pure si manifestavano, ma risultavano soffocate. Il sostanziale fallimento dei più generosi tentativi di globalizzare la politica nella gestione della Grande Recessione, lo scatenamento delle guerre commerciali, la crisi del multilateralismo, giustificavano il pessimismo.

A distanza di due anni, sono ben delineati di fronte a noi i termini di una svolta: non verso la deglobalizzazione economica – che sarebbe fonte di arretramento anche sul versante della lotta alla disuguaglianza, ma verso una vera e propria riscossa, in primo luogo sul piano ideologico, delle forze che lavorano alla costruzione di nuove forme di governo globale. Dopo il fallimento dei primi tentativi dei grandi Stati-nazione di “fare da sé“, è stata la cooperazione dei ricercatori di tutto il mondo a darci il vaccino in tempi prima impensabili, e le grandi corporation del farmaco hanno ricercato la collaborazione con i governi, in gran parte capaci di ragionare in termini di salvezza globale. Sull’ambiente e la salute – come ha confermato il G 20 di Napoli – sembrano riaprirsi le possibilità e gli spazi di iniziativa in quella che Pascal Canfin, Presidente della Commissione ambiente, salute e sicurezza alimentare del Parlamento europeo, ha definito l’era progressista della globalizzazione. Mentre il recente accordo sulla tassazione delle multinazionali indica che la globalizzazione della governance sta diventando una realtà. Da chimera – viene da dire con Pisani-Ferry – la globalizzazione progressista sta diventando un progetto politico. Ed è motivo di particolare soddisfazione, per chi confida nella forza del sistema politico a democrazia liberale – rilevare il fatto che a determinare una svolta così netta – assieme al dramma della pandemia e alla diffusa protesta tra i cittadini occidentali per le sofferenze indotte dalla globalizzazione non governata -, c’è stato il risultato elettorale delle Presidenziali americane, con la straordinaria mobilitazione di energie democratiche attorno a Biden.

Per quanto parzialmente smentita dal disastro afghano, la proposta della Alleanza delle democrazie avanzata da Biden – in aperto ed enfatizzato contrasto con la scelta del suo predecessore di schierare gli Stati Uniti contro l’integrazione europea e di aprire conflitti coi loro tradizionali alleati, fornisce un contributo determinante per la costruzione di un soggetto politico che può assumere una funzione decisiva nella nuova governance globale. Anche perché l’Alleanza proposta comprenderebbe a pieno titolo grandi democrazie asiatiche.

È in questo contesto che ha preso corpo, in Europa, il Next Generation EU: un gigantesco piano di riforme e investimenti dell’Unione come tale, finanziato con l’emissione di debito europeo, sul merito di credito comune. Si materializza ciò che da molti anni gli europeisti più consapevoli proponevano senza successo: affiancare alla politica monetaria della BCE una vera politica fiscale europea, capace al tempo stesso di perseguire obiettivi di breve – quel sostegno della domanda aggregata che è ormai fuori dalla portata dei bilanci pubblici nazionali dei Paesi Euro -, e strategie più ambiziose di innalzamento del potenziale di crescita dell’ Unione. Grazie al consapevole coordinamento della politica monetaria e della politica fiscale messe in atto sulle due sponde dell’Atlantico, l’economia dell’Occidente sembra in grado di recuperare rapidamente la caduta determinata dalla pandemia. Non sarebbe stato possibile, se fosse prevalsa la spinta alla chiusura nazionalistica.

Naturalmente, non è tutto oro quello che luccica: la vicenda drammatica del ritiro da Kabul è venuta a ricordarci che l’America che è “tornata”, con Biden, non è l’America disposta a pagare per sempre il costo della nostra sicurezza, in un contesto in cui la vittoria dei talebani rafforza la minaccia del terrorismo fondamentalista, la Cina persegue un disegno di egemonia globale e si moltiplicano i fattori di rischio nel nuovo mondo della sfida tra i due capitalismi, quello liberal-meritocratico e quello politico, di cui parla Milanovic.

Unione Europea: accelerare l’integrazione
I passi verso nuove forme di governo globale ci sono e sono stati compiuti rapidamente. Ma non è che un inizio. In Europa, quelli più impegnativi dovremo compierli a breve, pena una ricaduta all’indietro. Per la politica estera e di difesa comune, in primo luogo. La vicenda afghana obbliga ad agire: se i prossimi mesi trascorreranno invano, senza decisioni impegnative, il tema della accoglienza dei profughi avrà presto la meglio – nell’attenzione dei cittadini europei – sulla discussione che si è finalmente riavviata sulla costruzione di un autonomo strumento di difesa e sicurezza europeo, nel contesto della Nato e dell’alleanza con gli USA, a loro volta ripensate e rinnovate.

Se si passerà dalle parole ai fatti, il tema dell’esercito europeo si intreccerà con quello della politica fiscale. È così dai tempi della Magna Charta: decisione sul bilancio, decisione sulla pace e sulla guerra (cioè, sulla sicurezza e la politica estera) e sovranità politica sono indissolubilmente intrecciate. Il progetto di integrazione europea non si sottrarrà certo a questa regola.

In materia di politica fiscale, l’alternativa che abbiamo di fronte è chiara: il piano Next Generation EU, finanziato da titoli di debito europeo, emessi sul merito di credito dell’Unione, per finanziare riforme e investimenti che si realizzano nei singoli Paesi, ma sono preventivamente riconosciuti “di interesse europeo“, è una parentesi destinata a chiudersi con la pandemia, o è l’inizio di una nuova fase? Questa, per gli europeisti, è una domanda retorica. Ma non ci sono solo gli europeisti, al lavoro su questo tema. Chi ha resistito con successo, in passato, all’apertura di questa prospettiva – ed è stato costretto a piegarsi solo dall’esplosione della crisi pandemica – è pronto ad approfittare dei passi falsi da euforia europeista che possono essere compiuti in questa fase. Il primo è costituito dalla sottovalutazione dei rischi del riaccendersi dell’inflazione. È di grande rilievo la recente decisione della BCE di assumere – in proposito – regole di gestione dell’obiettivo del 2% più flessibili e più simili a quelle della Federal Reserve americana. Ma non si può dimenticare che persino la nuova e spregiudicata Moderna Teoria Monetaria considera quello relativo all’inflazione l’unico indicatore efficace di potenziali squilibri macroeconomici da eccesso di spesa pubblica in deficit.

Il secondo possibile passo falso è la pretesa – molto in voga tra i leader dei partiti politici italiani, se si deve giudicare dalla sfilata di Cernobbio- di rendere permanente la sospensione del Patto di stabilità, o di modificarne le regole in chiave lassista. Non può (e non deve) succedere né l’una, né l’altra cosa. Perché la presenza di regole comuni per la gestione dei bilanci pubblici nazionali risponde alle esigenze di tutti i Paesi, non solo e non tanto dei cosiddetti “frugali“: quelli ad elevato debito pubblico, come l’Italia, sono addirittura più esposti alle conseguenze di scelte irresponsabili di finanza pubblica di altri partner dell’Unione (vedi alla voce Grecia, all’inizio della crisi dell’euro). Ma anche e soprattutto perché chi è più interessato alla costruzione della politica fiscale comune tutto deve fare, in questa fase, meno fornire argomenti a chi la contrasta il nome del possibile “azzardo morale“. Anche la proposta di apparente buon senso della cosiddetta “regola d’oro“ per la esclusione della spesa per investimenti, presenta limiti evidenti: pone problemi di classificazione e, soprattutto, rischia di escludere spesa – come quella per istruzione – che è corrente secondo i criteri contabili, ma realizza in realtà l’investimento più redditizio in termini di innalzamento del Prodotto potenziale.

Dobbiamo dunque ripristinare le vecchie regole? Assolutamente no: l’introduzione di un obiettivo di debito a medio termine e di regole sulla evoluzione della spesa di ciascun paese, messe su solide basi di previsione di crescita e di inflazione, secondo la proposta in ultimo avanzata su Les Notes du Conseil d’analyse économique dell’Aprile scorso – sembra più coerente con la duplice esigenza di evitare di far assumere al coordinamento della finanza pubblica europea un pericoloso carattere pro-ciclico, superando al tempo stesso la centralità di obiettivi espressi in termini non direttamente osservabili nell’economia e nei bilanci pubblici dei Paesi membri.

La favorevole congiunzione astrale si completa, per la sinistra liberale italiana, con la presenza – alla direzione politica del Paese – di un governo come quello presieduto da Draghi.

Sulle circostanze che hanno portato alla sua nascita è stato detto e scritto molto, anche ipotizzando l’intervento di più o meno occulti “poteri forti“. Per parte mia, insisto sulla versione più lineare: quando è parso evidente che il Governo giallorosso non era in grado di elaborare e far approvare in Parlamento un Pnrr che comprendesse riforme ed investimenti -per la banale e definitiva ragione che c’era un generale accordo sulle maggiori spese, ma latitava quello sulle indispensabili riforme – il Presidente della Repubblica ha deciso di sollecitare tutte le forze politiche ad una piena assunzione di responsabilità verso il Paese, attorno alla leadership della personalità più autorevole, sia agli occhi dei cittadini italiani, sia agli occhi dei partner europei e internazionali.

Per il successo del tentativo del Presidente Mattarella è risultata ancora una volta decisiva la presenza – tra le forze maggiori del Parlamento – di una forza politica come il PD, il cui sostegno a Draghi e al suo tentativo poteva essere dato per scontato in partenza, senza neppure bisogno di verifica. Non solo perché era ragionevole assumere per certo che il PD fosse interessato a dare al Paese la possibilità di utilizzare pienamente l’occasione irripetibile del Next Generation EU. Ma anche per la forte vicinanza tra la cultura politica e l’ispirazione ideale del Presidente Draghi – come emergeva dai suoi discorsi pubblici e dai suoi comportamenti – e la cultura politica messa a base dell’atto di nascita del PD e dei suoi 14 anni di vita.

Ne sono scaturite una composizione del Governo e un’agenda dello stesso in cui le forze della sinistra italiana, a partire dal PD, potevano riconoscersi senza sforzo. Che è stato invece necessario per le forze del centro-destra – a partire dalla Lega -, che hanno responsabilmente deciso di impegnarsi nel sostegno al nuovo Governo, consapevoli della conseguente esigenza di allontanamento dalle posizioni orgogliosamente sostenute fino al giorno precedente: l’Unione Europea è la fonte dei problemi, non della soluzione. L’Euro non è irreversibile. Quota 100 è una misura per l’occupazione giovanile. La chiusura dei porti è l’architrave della nostra politica migratoria…

Anche sulla composizione del Governo, era la sinistra di ispirazione liberaldemocratica a poter ragionare sulla sua “presenza” non in termini rigidamente “partitici“, ma in termini di più generale “area culturale“.

Lo sviluppo dell’iniziativa del Governo, a partire dal Pnrr, ha confermato e sta confermando questo insieme di giudizi e valutazioni. Mentre l’apprezzamento per i risultati conseguiti ha contribuito a rafforzare il consenso popolare per Draghi e per il suo Governo. Al punto che si avverte una crescente preoccupazione: cosa succederà, nel momento in cui il Governo Draghi terminerà il suo mandato (al più tardi, nella primavera del ‘23)?

Salvini e Meloni conoscono questo orientamento popolare almeno quanto lo conosciamo noi, e cercano – l’uno dal Governo, l’altra dall’opposizione – di tenerne conto, sia privilegiando il quotidiano conflitto comunicativo col PD e le altre forze di centrosinistra e centellinando quello col Governo, sia lavorando – soprattutto Salvini, interno alla maggioranza – alla costruzione dell’immagine della Lega come il partito più vicino al Presidente del Consiglio e al suo Governo. Un rovesciamento delle parti – per chi si aggira in Europa con Orban e in Italia tiene bordone ai No vax e ai No Green pass- che non dovrebbe essere difficile svelare, in tutta la sua evidenza, agli occhi degli italiani.

E invece? Invece succede che le domande degli italiani che apprezzano l’esperienza che il Paese sta vivendo e vorrebbero che proseguisse a lungo, restano senza risposta, mentre i sondaggi segnalano – mese dopo mese – la stessa, univoca tendenza: i partiti del centro-destra – tanto impegnati a farsi reciproca concorrenza quanto a ribadire la loro unità – più vicini al 50 che al 40% delle intenzioni di voto espresse. Il PD e il resto del centro-sinistra distanziati di decine di punti, col primo fermo sotto il 20%. Il consenso al Governo Draghi a livelli altissimi, addirittura sopra quelli iniziali.

Un esame anche disattento di questi dati, unito alla consapevolezza dei “naturali“ punti di convergenza tra il PD e l’Agenda Draghi, dovrebbe suggerire al PD stesso e ai partiti minori del centro-sinistra una linea politica volta a rovesciare questo stato di cose, attraverso un consapevole sforzo di convincere quella maggioranza di italiani che valuta positivamente l’esperienza Draghi e desidererebbero che essa proseguisse, che l’unico partito/schieramento in grado di impegnarsi in modo esplicito e credibile per garantire loro il conseguimento di questo obiettivo è il PD/centro-sinistra. Un messaggio semplice. Fondato su dati di cultura politica e di orientamenti programmatici consolidati.

Perché non parte questo messaggio? La ragione l’ha spiegata chiaramente Goffredo Bettini, qualche giorno fa, esponendo quella che ritiene la migliore strategia politica per il PD: tra qualche mese, eleggere Draghi Presidente della Repubblica (facile, se si ragiona solo sui partiti, perché la Lega ha l’identica intenzione. In realtà, più problematica, perché decidono i singoli parlamentari, a scrutinio segreto). In secondo luogo, ristabilire una dinamica bipolare per le elezioni politiche, a quel punto pressoché immediate: chiusa l’anomalia Draghi, da una parte PD, Cinque stelle e altre formazioni minori di centro-sinistra; dall’altra Salvini, Meloni e Berlusconi. Se, smentendo i pronostici sfavorevoli, fosse il primo schieramento a prevalere, si tornerebbe al governo giallorosso, caduto non per intrinseca impotenza politica, ma per manovre di forze che si sentivano minacciate dalla sua iniziativa riformatrice. Se invece fosse il centro-destra ad affermarsi, come oggi tutti prevedono, stante il posizionamento politico dei principali protagonisti, la strategia del centro-sinistra sarebbe aperta a due sbocchi: se i vincitori daranno luogo ad un Governo, il PD – nel frattempo ristrutturato in versione “laburista“ – potrà riassumere una funzione egemonica nell’opposizione ad un Governo debole, perché isolato in Europa e poco competente nella gestione del Pnrr e dei problemi interni che si apriranno. Se i vincitori non riusciranno a dar vita ad un governo, si sarà nuovamente “costretti” a soluzioni di grande coalizione, a quel punto fondate sui due maggiori partiti, Lega e PD.

Per innalzare le probabilità di questo secondo esito, c’è poi chi sostiene che occorrerebbe superare a ritroso, a livello nazionale, le regole pur imperfette della democrazia competitiva, per produrre un risultato rigorosamente proporzionalistico, non chiaro in termini di esito sul Governo. Verrebbe così ulteriormente rafforzato lo squilibrio, già enorme, rispetto alle regole stabilizzatrici in atto per Comuni e Regioni, enfatizzando la debolezza istituzionale del Governo nazionale.

Tra un bipolarismo immaturo, che consegna la sinistra ad una testimonianza regressiva, e la ricaduta in una debole palude proporzionalista, ci può essere una terza via: un maturo centrosinistra che – anche partecipando a definire regole migliori per la democrazia competitiva – si concepisca e si promuova come interprete e continuatore dell’esperienza Draghi, vista come la coraggiosa apertura di un percorso, e non come una parentesi. Cambiato il molto che c’è da cambiare, la sinistra italiana può trarre un buon esempio dalla capacità del leader socialdemocratico Scholz di presentarsi come il migliore erede della grande coalizione con Merkel, con una SPD che torna competitiva come non era più stata dai tempi di Schroeder.

La strategia difensiva appena descritta sconta un’involuzione del sistema Paese e assume come sostanzialmente impossibile che il PD e i suoi alleati si facciano interpreti dei desideri e delle volontà della maggioranza degli italiani, oggi così radicalmente mutati da far respirare una diffusa aria di fiducia nel cambiamento delle cose, di consapevolezza che il Paese può farcela, che anche l’Italia – in un certo senso -“è tornata“. Non solo per i risultati sportivi, che pure hanno dato un importante contributo al nuovo clima. Ma anche e soprattutto perché ci sono un Governo e un Presidente del Consiglio che risultano credibili, perché prendono impegni e rispettano le relative scadenze. Che “vanno avanti“ contro il chiacchiericcio inconcludente, che hanno un’agenda chiara e intendono realizzarla.

Io sono convinto che esistano, nel centrosinistra italiano, le forze disposte ad impegnarsi in una battaglia politica non per “perdere bene“, ma per provare a vincere. Queste forze sono oggi disperse a causa delle rotture e delle scissioni, deluse per le sconfitte subite e spesso poco consapevoli degli errori commessi, che le hanno provocate. L’unità dei riformisti più coerenti è certamente negli auspici di tutti, ma non è un obiettivo politico dei più. C’è dunque molto lavoro da fare, per Libertàeguale

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