Tigri di cartaL’antistorica e dannosa proposta sulle pensioni dei sindacati

Per Maurizio Landini della Cgil la riforma del governo è «una presa in giro», per Luigi Sbarra (Cisl) è una cosa «inaccettabile», per Pier Paolo Bombardieri (omen nomen) è addirittura «una beffa». Ma le loro idee invece riporterebbero il sistema pensionistico indietro di trent’anni, in palese contrasto con i trend demografici che annunciano l’esplosione della miscela tra invecchiamento e denatalità

Unsplash

Ma chi credono di essere i leader sindacali? Come si permettono di dialogare a pesci in faccia quando, al massimo, riescono a rimediare solo qualche sardina? Dopo mesi in cui il governo si era premurato persino di non pronunciare o scrivere la parola pensioni, avvicinandosi la fatidica scadenza di quota 100 (62 anni di età e 38 di anzianità), Mario Draghi in una delle recenti conferenza stampa, alla domanda di un giornalista, aveva risposto che – come previsto – la norma (temporanea e sperimentale) sarebbe andata in pensione e che il governo si riservava di addolcire lo scalone, ovvero il passaggio, a parità di contributi (38 anni), del requisito anagrafico da 62 a 67 anni, salvo la possibilità di optare per il pensionamento anticipato ordinario, a qualunque età, facendo valere 42 anni e 10 mesi di anzianità contributiva se uomo, un anno in meno se donna. 

Questi requisiti (si è soliti dimenticarlo) sono stati congelati rispetto all’adeguamento automatico all’attesa di vita fino a tutto il 2026: una via d’uscita, anch’essa disposta dal governo giallo-verde, che si è dimostrata più agevolata di quota 100, in quanto più di 280mila soggetti (contro 260 ’’quotacentisti’’) sono stati in grado di maturare il requisito ordinario prima di aver compiuto 62 anni.

Tutto ciò premesso, nell’ultimo Consiglio dei ministri il ministro dell’Economia Daniele Franco ha dovuto mettere le carte in tavola, proponendo il superamento in avanti di quota 100, che sarebbe diventata quota 102 dall’anno prossimo e quota 104 dal 2023. Apriti cielo!

Per l’uomo del monte della Cgil, Maurizio Landini (ormai primus inter pares tra i segretari generali), la proposta è «una presa in giro», per Luigi Sbarra (Cisl) è una cosa «inaccettabile», per Pier Paolo Bombardieri (omen nomen) è addirittura «una beffa». Con la medesima sicumera un po’ talebana, Landini ha invitato il governo a confrontarsi sulle proposte di Cgil, Cisl e Uil che sarebbero, a suo dire, «una vera riforma». Ne ricordiamo i capisaldi; due opzioni: 41 anni di versamenti a qualunque età oppure un regime ordinario a partire da 62 anni e 20 di anzianità contributiva.

È una piattaforma antistorica, nel senso che riporta il sistema pensionistico indietro di trent’anni e che, in palese contrasto con i trend demografici che annunciano l’esplosione della miscela tra invecchiamento e denatalità, sceglie l’abbassamento dell’età pensionabile a scapito dell’adeguatezza del trattamento, perché, andando avanti negli anni la quota contributiva dell’anzianità è destinata a crescere e a incidere di più nel calcolo dell’assegno. E, come i sindacalisti dovrebbero sapere, il moltiplicatore del montante contributivo (coefficiente di trasformazione) volto a calcolare l’entità della prestazione cresce in relazione all’età del pensionamento.

Poi – diciamoci la verità – oltre a una riduzione (per gli uomini, i maggiori utilizzatori) di quasi due anni del trattamento anticipato, in pratica succederebbe che il requisito anagrafico della pensione di vecchiaia a parità di contributi (20 anni) passerebbe dagli attuali 67 a 62 anni.

Ma Draghi non ha contro soltanto le tigri di carta dei sindacati. Il problema più serio lo ha in casa, se anche un ministro serio e preparato come Giancarlo Giorgetti ha dovuto avanzare delle riserve ad usum Salvini, chiedendo di limitare le quote in ascesa soltanto al pubblico impiego. Sarebbe opportuno che qualcuno ricordasse alla Lega il pdl C 2588, presentato nel gennaio scorso da Claudio Durigon e da una sfilza di deputati leghisti. Nell’articolo 2 veniva stabilito – come si legge nella relazione – di mantenere l’accesso alla pensione «quota 100» per i soggetti che svolgono i lavori usuranti individuati con i criteri già in uso ai fini dell’accesso all’APE sociale o alla pensione per i lavoratori precoci». 

Posto che tali soggetti sono generalmente già destinatari del sistema misto di calcolo della pensione, si proponeva, pure, che anche tale prestazione fosse liquidata integralmente con il sistema contributivo. In sostanza, quota 100 sarebbe sopravvissuta soltanto per una platea ridimensionata (a tutela della quale intervengono altri strumenti) e con l’applicazione del ricalcolo contributivo ovvero con una sostanziale penalizzazione economica. Oddio! Le proposte di Franco sono una sorta di ’’minimo sindacale’’ con l’obiettivo di ricucire uno strappo inferno al sistema da quota 100 e dintorni. Ma il rammendo rimane.

Tuttavia, nella filiera delle quote indicate dal MEF vi sono degli errori tecnici vistosi (e a dire il vero, se non corretti, potrebbero trasformarsi in una ’’presa in giro’’). Per mitigare lo scalone vengono individuati due scalini intermedi: quota 102 (64 anni di età + 38 di versamenti) a partire dal 2022 e quota 104 (66 + 38) dal 2023. Se tra uno scalino e l’altro non trascorressero almeno due anni, i soggetti che nel 2022 non raggiungessero i requisiti previsti, si troverebbero l’anno successivo intrappolati dal loro incremento; così passerebbero direttamente al regime di quota 104. Tra i due scalini è necessario almeno un anno di tregua e di smaltimento. 

Il problema non cambierebbe se – come si dice – fosse inserito uno scalino intermedio: quota 103 (65+38) dal 2023 facendo scorrere quota 104 al 2024. Anziché uno scalone si aprirebbe un tunnel senza uscite fino al 2024. Poi viene spontanea un’ulteriore riflessione: che senso avrebbe prevedere una forma di pensionamento anticipato fino a un anno prima dell’età di vecchiaia (67 anni)? 

Concludiamo segnalando un aspetto meritevole di riflessione. Si sa che il pensionamento anticipato, proprio perché richiede un’anzianità di servizio abbastanza lunga, è praticamente un prerogativa, nei settori privati, dei lavoratori maschi e residenti al Nord (la componente finora forte e stabile del mercato del lavoro). Quota 100 ha esasperato questo divario verso le lavoratrici. Nel triennio 2006-2018, le pensioni di anzianità liquidate presentavano, fra i lavoratori dipendenti del settore privato, un rapporto di una donna ogni tre pensionati; con ’’quota 100’’ il rapporto è risultato di una donna ogni sei pensionamenti.