Il destino dei vini che hanno il dono dell’effervescenza e incarnano una tipologia connessa con le occasioni speciali, le celebrazioni, i momenti d’eccezione è da sempre un’impennata delle vendite a fine anno. Questa stagionalità è una croce e delizia della categoria: i produttori sanno infatti di poter contare su una garanzia commerciale sotto le feste (quest’anno si registrano transazioni da capogiro, con interi magazzini “saccheggiati”), ma rimanere relegati in questa fascia temporale può essere rischioso, oltre che un handicap organizzativo e di comunicazione. Le aziende lavorano perciò da tempo per provare a destagionalizzare la vendita, ma i vini mossi sono per natura percepiti come speciali, e come tali vanno trattati.
Ecco, dunque, un libretto delle istruzioni per maneggiare (con cura) questi vini particolari.
Nomen omen
Iniziamo chiamando le cose per nome. Da anni i vini che contengono anidride carbonica rispondono all’appellativo, brillante e auto-evidente, di bollicine; per gli amici bolle. Una facile e funzionale metonimia, che indica la parte (il gas) per designare il tutto (il vino gassoso), ma che non rende giustizia alla complessità né alla qualità del vino stesso. Non è certo il diossido di carbonio a fare la bontà della bevanda.
Paladino di una battaglia persa, accarezzo da tempo il sogno proibito di veder scomparire tutte le bollicine e bolle dalle carte dei vini d’Italia. Ma con che cosa sostituire questi vocaboli trendy-hype-easy? A me non dispiace una semplice operazione filologica: vini spumanti è, a pensarci bene, locuzione assai più poetica: dà conto della movimentata leggiadria e dell’eleganza della spuma, intima fusione del gas e del liquido, degli aromi e del sapore del vino.
Spumante è però una stantia parola novecentesca, che paga il prezzo di una calamitosa banalizzazione industriale ed evoca dozzinali bottiglie da 3,99 € al discount. Moltissimi produttori non ne vogliono neanche sentir parlare. Peccato: se accordassimo più importanza ai suoni e alla semantica – mai notato quanto sia eufonico il participio presente sostantivato spumante e quanto cacofonico bolla? – non ci scandalizzeremmo di ricordarci che lo champagne è uno spumante.
Qualche alternativa? Visto che in materia di vino l’Italia si ispira quasi sempre alla Francia, perché non mutuare la dicitura transalpina vin effervescenti? O perché non legittimare appieno la duttile e icastica espressione vino mosso?
In cantina
Veniamo alla pratica. Tornate felici a casa con il vostro champagne o franciacorta preferito e avete ansia di stapparlo. È una buona idea? Probabilmente no. Contrariamente a quel che spesso si crede, gli spumanti, specie metodo classico, hanno bisogno di invecchiare un po’. Quanto? Una risposta generica è impossibile, perché varia caso per caso, ma qualche anno di bottiglia fa bene a qualunque Oltrepò pavese, Trentodoc o Crémant. Sia esso demi-sec o pas dosé, millesimato o brut sans année, rosato o blanc de blancs. A patto però di avere una buona cantina dove custodirlo (fresca, abbastanza umida, buia).
Quanto conservare la vostra bottiglia? Se l’etichetta (o la retro-etichetta) riporta una data di sboccatura, non sbaglierete attendendo almeno un anno / un anno e mezzo. Se invece non potete basarvi su alcun riferimento temporale, semplificatevi la vita: considerate la data d’acquisto come il punto di partenza. Ma che cosa accade se la bottiglia era già stagionata a nostra insaputa al momento della vendita? Se nei vostri desideri c’è uno spumante profondo, complesso e armonico correte comunque più rischi a stapparlo troppo presto che un po’ troppo tardi.
Come va conservata la bottiglia? Non a testa in giù (come vedo ancora fare in qualche caso): questa folkloristica soluzione scimmiotta la posizione in cui il metodo classico subisce il remuage, una delle operazioni del processo di spumantizzazione, ma in una bottiglia già in commercio non fa che accrescere la pressione verso il tappo. A lungo si è ritenuto che le bottiglie vadano conservate coricate. Lo scopo sarebbe bagnare il sughero con il vino, aiutandolo così a mantenere una sana elasticità. Alcuni studi dimostrerebbero tuttavia che l’intercapedine tra vino e tappo mantiene da sé un’umidità ideale. Dunque tenere la bottiglia in piedi risulterebbe indifferente o quasi. Nel dubbio, se potete coricarla non le farà male.
Ricordate però soprattutto che più la vostra cantina è calda, prima (e peggio, probabilmente) invecchierà il vino. Se supera i 20-22 °C, cercate un’alternativa.
Temperatura e raffreddamento
Gli spumanti vanno bevuti freschi o freddi. Ma attenzione agli equivoci: nessuno di essi va servito ghiacciato, a meno che non sia così cattivo da volere annichilirne il sapore. In tal caso, preferite il lavandino.
In linea di massima, gli spumanti giovani si servono a 8-10 °C, quelli maturi ed evoluti a 11-12 gradi. Tenete però sempre presente un parametro che si sottovaluta spesso, la temperatura ambientale: se lo bevete in un locale molto caldo, servitelo più freddo (comunque mai sotto 6-7 °C), oppure abbassate il riscaldamento (opzione più sagace, economica ed ecologica).
Come raffreddare la bottiglia? Il cestello con acqua e ghiaccio è scenografico e raffinato; di solito bastano 20-30 minuti di completa immersione per arrivare a una temperatura idonea. Ricordate di tenere a portata di mano un “frangino” (tovagliolo o canovaccio) pulito per asciugare il flacone ogni volta che l’estrarrete dal cestello. (E non capovolgete la bottiglia vuota a testa in giù nel cestello: è un’usanza degna dei peggiori night club degli anni Settanta… «Mario, portacene un’altra!»).
E se non avete un cestello? Se lo spumante era conservato a temperatura di cantina, in frigo basterà un paio d’ore. Ma il freezer? Si sostiene spesso che una “botta di freddo” intenso danneggi il liquido; alcuni studi del professore di enologia émile Peynaud dimostrerebbero invece che non c’è differenza rispetto al frigo. A patto tuttavia di rispettare la medesima temperatura di arrivo.
Stappatura
È il momento temuto da molti, perché può essere disagevole, talora anche rischioso. In realtà non è troppo complicato, se osserviamo qualche accorgimento. Ecco come procedere.
Primo: scartate la capsula (il foglio metallico che ricopre il tappo).
Secondo: stringete bene il tappo e il collo della bottiglia con la vostra mano “debole” (per i destri la sinistra e viceversa) e posizionate il pollice saldamente sopra il tappo. Mano e pollice non dovranno più spostarsi di lì.
Terzo: con l’altra mano allentate la gabbietta (meglio non rimuoverla, perché da questo momento in poi il sughero potrebbe saltare via in qualunque momento).
Quarto: portate la mano “forte” sotto il fondo della bottiglia.
Quinto: ruotate la bottiglia (non il tappo!) lentamente e sempre nello stesso senso, come per se doveste svitarla. Contemporaneamente, con la mano debole e il pollice dovete capire se la chiusura oppone resistenza (allora cercate di smuoverla con cautela) oppure se si libera facilmente (in quel caso dovrete cercare di governarne la spinta).
Sesto: quando il tappo è quasi espulso del tutto, rallentatene ulteriormente la fuoriuscita: il rumore che si deve sentire è un soffio gentile e quasi impercettibile. Il “botto” è triviale ed esibizionista.
Per analoghi motivi di sobrietà, va da sé che la circense ma ormai celebre pratica della “sciabolatura” – la decapitazione della bottiglia con un colpo di spada (o di qualunque altro oggetto) sul collo – è una pratica da bandire dall’universo.
Servizio e calici
In alcuni ambienti è divenuto di moda scaraffare lo spumante in decanter, parificandolo a molti altri vini, per permettergli di “respirare” e di sprigionare prima e meglio il proprio bouquet. Questa operazione disperde però tanta anidride carbonica molto in fretta, mortificando lo spumante. Meglio attendere con un poco di pazienza che dia il meglio di sé direttamente nei calici.
Quale bicchiere scegliere?
Le cosiddette flûtes sono da tempo l’opzione più quotata, dato che mettono in evidenza il perlage, ossia le catenelle di bollicine che risalgono nel calice. Grazie alla loro forma alta e stretta non sono però ideali per apprezzare gli aromi del vino. Oggi molte di esse hanno perciò assunto una forma più ampia e panciuta, conservando di fatto della flûte solo l’altezza e la sottigliezza dello stelo. Tanto vale allora impiegare un normale buon calice, lo stesso che scegliereste per un ottimo vino bianco fermo.
E la coppa? Dopo un secolo di incontrastata primazia, tra metà Ottocento e metà Novecento, è stata messa all’indice dai puristi della degustazione, perché troppo svasata per gratificare il profumo del vino. È vero. Però è così raffinata e peculiare che io amo ancora usarla per servire un vino raffinato e peculiare.
La coppa, specie se piccola, può essere quasi colmata, altrimenti sembra semivuota. Noblesse oblige, flûtes e calici a tulipano vanno invece riempiti non oltre la metà, meglio ancora un terzo.
Bulla in fundo
Visto che abbiamo iniziato dalla CO2, concludiamo con la CO2. Molti intenditori argomentano che la finezza e la velocità di risalita delle bollicine nel calice siano direttamente proporzionali alla qualità dello spumante. In verità il professor Gérard Liger-Belair, fisico dell’università di Reims (in Champagne!), ha dimostrato che l’aspetto delle bollicine è legato a fattori indipendenti dalla qualità del vino (o solo in parte e indirettamente connessi): il volume di anidride carbonica contenuta nella bottiglia, la temperatura di servizio, solo marginalmente la densità del liquido, ma soprattutto le condizioni del calice. Sono infatti le “impurità” quali le particelle di polvere depositate nel bicchiere, oppure i piccoli intagli o le imperfezioni del vetro a creare i cosiddetti “centri di nucleazione” da cui si sprigionano le bollicine.