Saranno due gli schieramenti nel dibattito sul trentennale di Mani Pulite. Il primo, maggioritario, sarà formato da coloro che ne celebreranno l’epopea al grido di fummo i precursori dell’onestà, sostenuti dalla meglio Italia, finalmente applicammo la legge uguale per tutti contro quelli che si ritenevano più uguali degli altri. Il secondo schieramento, meno folto, sarà composto da coloro che opporranno all’apologetica del primo le detenzioni ingiuste, i morti di carcere, gli arresti in prima pagina e le assoluzioni in trafiletto tra le previsioni del tempo.
Nel primo schieramento non mancherà l’opportuna rappresentanza di seconda fila, modestamente penitenziale, che rivendicherà lo spirito benintenzionato di quell’operazione ma saprà dolersi di certi eccessi, di certe sensibilità assopite, del largheggiare magari necessario ma in ogni caso penoso della soluzione carceraria: un po’ come il cappellano che soffertamente benedice le baionette.
E nel secondo schieramento mancherà l’opportuna denuncia del nocumento capitale arrecato dal manipolo milanese: l’insulto mai prima così grave, lo sfregio mai tanto incensurato, l’attentato mai prima sperimentato con analoga capacità offensiva, allo Stato di diritto. E non si tratta neppure di quello scempio rappresentato dal gruppo sedizioso dei pm meneghini che convocava le telecamere per manifestare indignazione morale avverso il governo che osava approvare norme sgradite.
Si tratta di quando il loro capo, di cui il Corriere della Sera offriva memorabili immagini equestri, si metteva a disposizione della «chiama» presidenziale per prendere in mano il Paese e ripulirlo: «A un appello di questo genere del capo dello Stato», disse allora Francesco Saverio Borrelli, «si potrebbe rispondere con un servizio di complemento». E a guarnire di ulteriore violenza eversiva quello sproposito fu l’obliquo riferimento alla «folla oceanica» sotto ai balconi delle Procure, magari di per sé insufficiente a legittimare quella soluzione ma solo bisognosa, appunto, del piccolo passaggio formale con cui il despota incarica il colonnello di formare la junta.
Ci si duole episodicamente (ormai è quasi gratis, dopo trent’anni) di qualche suicidio di troppo, di qualche lieve ineleganza davanti all’imponderabile e fisiologico gesto del detenuto che infila la testa in un sacchetto di plastica («Si vede che c’è ancora qualcuno che si vergogna»), di qualche tenue scompostezza nei propositi dell’accusa pubblica («Io a quello lo sfascio»): ma è acqua sul marmo quel conato golpista dal pulpito della persecuzione associata, lo stesso da cui in finire di carriera si istigava a resistere, resistere, resistere nella costituzione in contro-governo del potere togato.
Ma fu quello il colpo devastante. Quello, e il fatto che non se ne riconobbe la plateale pericolosità.