Una bella azioneGuarda un po’, il vecchio modello del congresso è quello migliore per costruire un partito

Lontano dalle agorà virtuali, dal bluff dei meetup e dai personalismi da tweet, la decisione di Carlo Calenda ha portato a radunare intorno al suo progetto una comunità di almeno mille persone disposte a passare due giorni a parlare e ragionare di politica, riscoprendo un rito che presenta, oltre alla dialettica e al confronto delle idee, anche i suoi momenti di spettacolo

Roberto Monaldo / LaPresse

Ogni tanto torna ad aver ragione il vecchio Marshall McLuhan: il mezzo è un messaggio.

Ultima conferma: il congresso di Azione, il partito di Carlo Calenda.

Ha scelto di fare un Congresso, non un meetup, non una Agorà, termini suggestivi senza sostanza.

Chi ha misurato la presa in giro dei meetup, sfogo settario da alcolisti anonimi, o la pochezza di Agorà costruite per uditori distratti, su temi particolari, mentre tutti vorrebbero innanzitutto capire cosa si intende per campo largo, sa bene la differenza. Qui, in casa Azione, è stato proprio un Congresso, il più classico dei vecchi modi di fare politica, caduto in disuso, con relativa commiserazione, perché incompatibile con i personalismi, i tweet, la brevità concettuale, quella affermatasi negli anni delle idee corte.

Ed è stata una buona scelta, quella di Calenda, di successo. I segretari degli altri partiti rispondendo ad inviti selezionati (altro messaggio: Conte e Meloni non erano nella mailing list) si sono sorpresi e complimentati: esistono ancora 1.000 persone disposte a passare due giorni a parlar di politica!

Lasciamo ad altri la valutazione dei contenuti, stiamo parlando del contenitore, e in tempi come questi è già tanta roba. Il messaggio è chiaro: vogliamo essere una comunità, che ha una base comune, con normali differenze al proprio interno, ma desiderosa di confrontarsi, costruendo – ma guarda un po’ – un vecchio arnese, un partito.

La sfilata degli ospiti, nei Congressi veri – e questo lo è stato – non è un rito, è un modo per definire se stessi, di misurare differenze e affinità. Una gioia tutta interiore, una ginnastica del pluralismo.

Congresso vuol dire delegati, cioè gente in carne e ossa, scelta da altri in sede locale, che dedica il week end ad un viaggio a Roma Eur, si cerca l‘albergo, prende il taxi e di buon mattino si presenta al desk, indossa un contrassegno, siede in platea e ascolta. La sera ne discute in trattoria, e non è uno scandalo se si trama per entrare nel listone degli organi dirigenti, magari ancora un po’ prefabbricati, ma di questi tempi non si può pretendere troppo. È comunque democrazia, più diretta di quella diretta.

Ascoltare è ben più di un post da leggere se non è troppo lungo, è reagire alla sequenza dei discorsi con un applauso, ma anche – liberamente, senza insultarsi – con uno sbadiglio. È provare un’emozione per una frase in cui ti riconosci, è partecipare, essere un corpo compatto, individuale ma allargato, che vibra per un consenso, che rumoreggia per un dissenso.

C’è, in ogni Congresso, dentro la litania di un bla bla che si sussegue al microfono, tra interventi sorprendentemente freschi e altri terribilmente costruiti, c’è sempre un momento in cui il silenzio si fa intenso, totale. La politica è anche teatro, è spettacolo e là sul palco c’è qualcuno che sa toccare le corde del tuo stesso pensiero stupendo.

È la magia del Congresso, dell’essere in 1.000, gomito a gomito, mascherina a mascherina, a respirare e sentire l’eco delle proprie idee, non banalmente il like effimero e gratuito di un social. E magari tutto questo è registrato dai taccuini di cronisti che – abbandonando la modalità remoto, alibi da Covid – sono tornati a far la fatica antica di camminare nei corridoi, intervistare i peones, cogliere le voci e le sensazioni.

Aria nuova portata da vecchi modelli della politica.

Ma anche di più. Intanto, un Congresso è un antidoto o almeno un correttivo, al personalismo, al leaderismo. C’è un capo, naturalmente, ma si impegna a convincere, è lì, davanti a te, ne percepisci la fatica e il sudore. Sono sforzi fatti per te, proprio per te, non per gli amici di Facebook.

E poi c’è quella cosa bellissima, lo sforamento dei minuti che hanno assegnato all’oratore: più di un tweet, meno di uno sproloquio.

Vedi Emma Bonino al Congresso di Azione: un ragionamento, un’apertura e una critica, un tono basso e uno alto. Mai retorica. È il bello di parlare per 20 minuti, anzi un po’ di più. È il bello dell’argomentazione, della seduzione che vien giù dal podio e passa tra le poltrone dell’auditorium, e ti prende, ti convince.

Viva il Congresso, vien da dire. Il messaggio è arrivato.

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