La percezione comune è che la donna islamica sia sottomessa all’uomo a causa del Corano. E questa credenza sembrerebbe essere confermata dalla cronaca recente, in cui si alternano storie di padri padroni, spose bambine, matrimoni combinati e femminicidi in nome della religione.
A Saman Abbas, pakistana di origine, trasferitasi in provincia di Reggio Emilia era stato imposto il matrimonio con un ragazzo del Pakistan, nonostante fosse fidanzata. È sparita ormai più di un anno fa, dopo essersi opposta al destino che aveva stabilito per lei la famiglia. Ma è solo una delle donne che hanno subìto (e subiscono) il radicalismo estremo. Appena due mesi fa una ragazzina di 12 anni è stata promessa in sposa dalla madre, originaria del Salento, al fratello del nuovo compagno pakistano. Nel giugno dello scorso anno una donna palermitana è stata picchiata, abusata, minacciata di morte e di essere sfregiata con l’acido dal marito tunisino. Non voleva indossare il burqa ed era costretta a seguire il Ramadan, nonostante fosse cristiana.
I fatti di cronaca sembra dimostrino che le donne islamiche arrivate in Italia non possano godere degli stessi diritti delle donne italiane. Ma in realtà la questione è più varia e complessa. Il fulcro del rapporto tra Islam e diritti femminili risiede nell’interpretazione del Corano. È una questione delicata perché, secondo la religione, il testo sacro è stato rivelato direttamente da Dio e le sue indicazioni regolano ogni ambito della vita dei fedeli.
A un’interpretazione tradizionalista, quindi, se ne oppone una più progressista. La prima legge il Corano in chiave classica, contemplando l’esistenza di disuguaglianze tra uomo e donna. La seconda ritiene che il testo debba essere analizzato tenendo conto del contesto storico e che necessiti di una costante attualizzazione.
«Tra un pensiero islamico congelato che circonda assiduamente i problemi delle donne e un’ideologia occidentale che si diverte a denigrare l’Islam attraverso quegli stessi problemi, si fatica a pensare a una terza via, attraverso la quale le donne musulmane possano uscire da questa impasse ideologica», scrive la scrittrice e attivista marocchina Asma Lamrabet in “Women in the Qur’an”. Nel libro l’autrice si chiede se sia davvero la religione che opprime la donna o se non sia invece «una realtà sociale che si appropria del religioso per riformularlo secondo una rappresentazione gerarchica che gli permette di affermare meglio i suoi poteri».
L’Islam porta, da un lato, un messaggio di giustizia, amore e pace, «proveniente da un Dio che, creando l’essere umano, uomo e donna, lo ha reso inequivocabilmente libero, uguale e dignitoso». D’altro canto la concezione tradizionalista contribuisce a perpetuare l’ideale del predominio maschile, trasformando la religione in uno dei canali di discriminazione tra i sessi.
Asma Lamrabet ritiene che nessuna disuguaglianza potrebbe essere giustificata dal testo sacro, ma tale convinzione fatica a concretizzarsi nella realtà musulmana, che necessita di un rinnovamento. Secondo lei il Corano rivela (anche) la responsabilizzazione femminile, ma questo spirito viene negato da altre interpretazioni.
La contraddizione tra le due visioni è evidente nella Sūra 4, al versetto 34. «Gli uomini sono preposti alle donne perché Dio ha prescelto alcuni di voi sugli altri e perché essi donano parte dei loro beni per mantenerle». Il punto controverso riguarda il verbo “preposti”, interscambiabile, secondo l’interpretazione tradizionale, con “superiori”. Molti interpretano questo passaggio come indicazione indiscutibile del predominio degli uomini sulle donne. In senso moderno invece si intende come “devono prendersi cura”: infatti all’epoca solo gli uomini andavano a lavorare e chi interpreta attualizzando deve tenere conto del fatto che ora anche le donne lavorano.
Anche Sherin Khankan, Imam di una Moschea femminile di Copenaghen, adotta una lettura progressista. Già il fatto che ci sia una donna alla guida della preghiera non è una pratica accettata dal mondo musulmano tradizionalista. L’intento della Imam danese è quello di scardinare le gerarchie, ad esempio celebrando matrimoni inter-confessionali (in teoria proibiti alle musulmane), trovando punti d’incontro tra i valori occidentali e l’Islam.
In Occidente l’interpretazione progressista del testo sacro è più diffusa che in altri Paesi. Bedri El Meddeni, Imam di Palermo, afferma che la donna è «maestra dei bambini, costruttrice della famiglia con l’uomo, ha il ruolo dell’educazione, esprime liberamente la sua opinione, ha responsabilità finanziaria e partecipa alla società. L’idea che debba stare a casa è sbagliata».
Sul ruolo della donna è d’accordo il presidente del direttivo della Moschea Mariam di Milano Maher Kabakebbji. «La sua importanza si capisce già dal nome della nostra Moschea: Mariam. La figura femminile è il fulcro della famiglia. È una persona umana degna della sua creatura. Ha il diritto di scegliere lo sposo e di essere trattata bene, in caso contrario può divorziare. Ha capacità giuridica, può possedere qualunque tipo di bene».
Nuovamente, i fatti di cronaca si scontrano con queste interpretazioni. Poco più di tre settimane fa una donna musulmana di Castelfidardo ha denunciato il marito in seguito agli ennesimi divieti. Dopo anni di proibizioni anche nei confronti della figlia, a cui era vietato uscire con gli amici, la donna è stata picchiata per aver prelevato dei soldi per pagare le bollette.
Anche la credenza che il velo sia un obbligo è controversa e soggetta a interpretazioni differenti. Nemmeno cinque mesi fa una 14enne di Ostia è stata picchiata dal fratello perché rifiutava l’educazione islamica imposta dalla famiglia e l’utilizzo del velo. Al fatto, ripetutosi più volte, è seguita una denuncia. Ma l’Imam sostiene che secondo il testo sacro l’hijab è una proposta, la donna può metterlo come no, spetta a lei scegliere». Maher Kabakebbji ritiene che il velo sia stato «prescritto da Dio, non c’entra l’uomo. Dio ha creato la donna di una certa bellezza e ha chiesto che fosse conservata lontano da occhi indiscreti».
«A volte mi dicono “ah sì, tu fai tante cose, però hai il velo” e io penso “e cosa significa?”. La mia scelta è frutto di una relazione personale tra me e Dio. Nessuno può entrare in questa relazione, nemmeno mio marito», afferma Amina Natascia Al Zeer, attivista, ideatrice e co-fondatrice del progetto Aisha.
D’accordo con una visione progressista, l’imam ritiene che, nell’applicare le prescrizioni del Corano, «bisogna tenere in considerazione le trasformazioni della società. Se c’è necessità di cambiare, noi cambiamo. Non bisogna accettare passivamente, ma analizzare in modo critico».
«Nel Corano ci sono delle regole che non si possono toccare, sono pilastri», dice Amina Salah presidentessa dell’Admi (Associazione donne musulmane d’Italia). «Altre che riguardano il modo di vivere in generale, queste cambiano. Non è che se al mondo del profeta non avevano le automobili allora noi non possiamo guidare. Ogni società ha le sue esigenze. Il tempo è cambiato anche per l’Islam».
Sull’uguaglianza tra uomo e donna Amina Al Zeer sostiene che «la donna davanti ad Allah è indistinguibile dall’uomo». «È vero che le donne musulmane fino ad adesso in tanti Paesi non hanno ancora il loro posto, sono sottomesse. La causa è da imputare a quei Paesi». Talvolta infatti nell’immaginario collettivo religione e cultura diventano inscindibili. E se, spesso, i due si condizionano a vicenda, bisogna tenere a mente che non sono la stessa cosa. «Chi vuole liberare le donne musulmane non conosce l’Islam, conosce quello che succede in alcuni paesi musulmani» afferma Amina Salah.
Insomma, la visione occidentale della donna islamica è controversa, come controversa pare l’interpretazione del Corano. Una cosa è certa: il background storico e culturale incide profondamente sull’analisi del testo sacro e, di conseguenza, sulle libertà delle donne. E che se da un lato si sta facendo strada un’interpretazione volta alla tutela della donna, dall’altro bisogna ricordare che solo tre mesi fa in Afghanistan le teste dei manichini – soprattutto se con sembianze femminili – sono state tagliate perché ritenute contrarie alla Sharia.