La tragedia del FahrudIl nazionalismo arabo ha cancellato la millenaria presenza ebraica in Medio Oriente

Lo storico britannico Elie Kedourie assistette alla repressione antisemita in Iraq. In un decennio viene spazzata via la tradizione lunga almeno 2500 anni degli ebrei nelle terre a maggioranza islamica. Un veleno intellettuale che causa ancora oggi sofferenza e incomprensione

unsplash

Da dove viene Elie Kedourie (1926-1992)? Qual è l’humus, quale la storia culturale di cui è l’espressione? Qual è la pavimentazione su cui sorge il suo edificio concettuale? È ragionevole ipotizzare che la sua riflessione sul nazionalismo non sia estranea al terribile choc vissuto all’indomani del Farhud.

Il Farhud è il pogrom del giugno 1941 che travolse una comunità di 120 mila ebrei iracheni, uno choc prodotto dalla violenza con cui le folle arabe si riversarono nelle piazze infiammate dal nazionalismo arabo (e a cui gli inglesi assistettero senza intervenire in seguito al colpo di stato fallito di Rashid Al Gaylani, nel 1941, che ambiva a schierarsi con la Germania nazista). Furiosi per il fallimento del putsch e per la repressione inglese, gli arabi iracheni se la presero con gli ebrei, colpevoli di simpatie filo inglesi: la violenza si riversò contro il quartiere ebraico. Il Farhud, lasciò sul selciato i corpi di 128 ebrei assassinati – ma c’è chi parla di 1000 morti -, con 210 feriti, 1500 case e negozi distrutti.

Non dimentichiamoci che, più avanti, tra i fautori dell’indipendentismo panarabo e tra i fondatori del partito Baat saranno numerosi i simpatizzanti della Germania nazista e dell’Italia di Mussolini.

In quegli anni, il clima che si respira peggiora di giorno in giorno a Bagdad. Il punto di svolta, quasi di non ritorno, sarà il 23 ottobre 1948 con l’impiccagione di Shafik Ades, a Bassora, un notabile, un uomo d’affari importante dell’upper-class irachena, noto nei circoli politici e economici più in vista del Paese. Lo choc del mondo ebraico mediorientale e del giovane Elie Kedourie sarà totale. Se si è osato tanto, ovvero impiccare un uomo come Ades, col cappio al collo e sulla pubblica piazza, un personaggio così in alto, allora davvero tutti gli ebrei sono in pericolo.

Così, dal 1948 in avanti, il Farhud smetterà di essere considerato un episodio isolato ed estemporaneo quanto invece un serio e inequivocabile segnale di allarme (senza contare che anche il fratello di Shafik Ades, Toufic Ades, verrà assassinato pochi giorni dopo dal suo chauffeur, factotum e uomo di fiducia, il quale si approprierà dei suoi beni, – case, terreni, proprietà commerciali -, nell’impunità più assoluta).

Elie Kedourie assiste a tutto questo: ha quindici anni.

Nel XX secolo, l’Iraq metterà in atto quello che resta il peggior esempio di spoliazione in terra araba. Licenziamenti di massa, attacchi contro sedi ebraiche, attentati contro persone fisiche e sedi economiche, il congelamento e la confisca di beni mobili e immobili da parte delle autorità: nella notte del 2 marzo 1951 il Parlamento iracheno votò la spoliazione di 130 mila ebrei, una spoliazione organizzata e attuata con un atto di forza repentino e in barba a tutte le rassicurazioni fornite sino ad allora dal governo in carica. In una notte, il Parlamento di Bagdad espropriò la più ricca, colta e raffinata comunità del mondo arabo, sottraendole un passato di più di due millenni di storia, una presenza stabile e longeva che risaliva ai tempi dei giardini pensili di Babilonia e alle ziggurat di Ninive e di Nabucodonosor (597 a.e.v.).

In ciascuno di questi Paesi, il nazionalismo arabo del XX secolo ha espulso ogni memoria ebraica, ha escluso gli ebrei dal loro millenario mondo di origine privandoli di beni appartenuti loro da generazioni. (Il docu-film francese The Silent Exodus, di Pierre Bechor ne parlerà. Ma anche i numerosi saggi dello storico Georges Bensoussan, tra cui Gli ebrei nel mondo arabo, Giuntina. E poi, i saggi L’ebreo inventato, a cura di Saul Meghnagi e Raffaella Di Castro, Giuntina; Vittorio Robiati Bendaud, La Stella e la Mezzaluna, Guerini e Associati. O ancora, gli scrittori Eli Amir (1935) e Sami Michael (1926), testimonieranno nei loro romanzi dell’ebraismo iracheno perduto).

Come ci ha fatto notare Alberto Mingardi nella sua Introduzione – che è un saggio vero e proprio – in un decennio viene spazzata via una presenza ebraica in terra babilonese di duemila e cinquecento anni. E in poco più di una generazione si consuma la totale scomparsa dal mondo arabo di una cultura, quella specifica del mondo ebraico, la cancellazione della civiltà giudeo-araba dalle terre dell’Islam. Una presenza esito di secoli di soprusi, regimi fiscali aggravati, conversioni forzate, violenze e umiliazioni, come dimostrano tonnellate di documenti, decreti, cronache e leggi, in un tessuto sociale arabo maltrattante, in una atmosfera intrisa di antigiudaismo permanente e capillare, per lo più vessati, rigettati, disprezzati.

Malgrado le occasionali – e reali – finestre di relativa tolleranza e feconda convivenza che si produssero in alcune epoche, specie sotto il governo della Sublime Porta.

Per generazioni i Kedourie e gli ebrei di Bagdad furono i banchieri dei governatori ottomani. La fine del monopolio della Compagnia delle Indie Orientali spinge gli ebrei verso l’estremo Oriente, verso i porti di Bassora, di Suez, con l’apertura del canale: questa sarà la storia dei Kedourie, dei Sassoon, di un imprenditore brillante e carismatico come Joseph Helwani, di decine di grandi famiglie irachene con le loro dimore sul Tigri e sull’Eufrate, le loro kermesse mondane e letterarie, le discussioni culturali, una dolcevita opulenta, raffinatissima, colta e occidentalizzata. La Bagdad ebraica brulicava di proposte e stimoli europei, nelle librerie di Bagdad si vendono i tascabili inglesi e francesi, riviste letterarie. Un’élite culturale estremamente sofisticata fiorisce negli anni Venti e Trenta, insieme a una classe giornalistica che fonda riviste e periodici come Al Misbah, e come Al Hasid, il più importante giornale letterario del Medioriente. I nomi di questi giornalisti ebrei in lingua araba, Salman Shina, Anwar Shaul, Menashe Zarur, Salim al Bassun, sono oggi scomparsi dalle cronache arabe, in una totale epurazione culturale del passato (analogamente accadrà anche a Beirut, con il caso di Toufic Mizrahi e del suo giornale Le Commerce du Levant).

Elie Kedourie fa parte di questo milieu, egli stesso è giornalista culturale a Bagdad, scrive in lingua inglese per l’Iraq Times. Lascerà l’Iraq per Londra nel 1947.
Come stupirsi allora se, per Kedourie, il nazionalismo è una miscela mortifera, un costrutto ideologico rovinoso, una dottrina distruttiva e eversiva? Come meravigliarsi se egli vi ravvisa un sistema d’idee che mina le possibilità della convivenza fra gruppi e culture diverse nello stesso territorio?

Il Nazionalismo è per Kedourie «un veleno intellettuale» che genera patologie gravi, basti guardare gli effetti devastanti nei paesi del Levante, come accade per molte dottrine europee esportate altrove (in questo senso, Kedourie la penserà come Lord Acton che alla fine del XIX secolo affermava che il nazionalismo sarebbe stato più liberticida del socialismo)

Anche per queste ragioni la lettura di Kedourie ci offre spunti dissonanti rispetto a idee e pensieri molto diffusi.

1. Egli crede che l’accordo Sykes-Picot (maggio 1916) «sarà l’ultimo tentativo responsabile da parte dell’Europa di venire alle prese con la dissoluzione dell’impero ottomano» mentre oggi quel documento è considerato la sorgente dell’ostilità del mondo arabo per l’Occidente.
2. Per questo, ridimensiona clamorosamente la figura di Lawrence d’Arabia, a suo avviso agente del nazionalismo arabo.
3. Da qui nasce anche l’idea, il concetto politico del «dispotismo orientale che è insolenza e avidità di un potere arbitrario che non conosce limiti» (ad esempio, il potere dei vari sheik o rais delle tribù dell’area, o dei Khanati dell’Asia Centrale).

Con il XX secolo, la civiltà giudeo-araba e il milione di ebrei che per millenni aveva vissuto in Medioriente e Nord Africa saranno estirpati dalle loro terre ancestrali, cancellati, spazzati dal crollo del sistema coloniale, dal panarabismo, dall’autodeterminazione nazionale dei vari Paesi arabi e dalla loro implosione sociale e politica.

Con il XX secolo prende il via il Grande sradicamento, come lo chiama lo storico Georges Bensoussan, le Grand Déracinement: ovvero la cancellazione con un colpo di spugna della millenaria presenza ebraica in terra d’Islam, la fine della civiltà giudeo-araba, di cui il conflitto arabo-israeliano e la nascita dello stato d’Israele non furono la causa ma solo il catalizzatore.

Elie Kedourie, vivrà la fine del suo mondo. Peggio ancora, vedrà la fine di una civiltà. Come stupirsi allora che lo studioso sanzioni in maniera così feroce qualsiasi forma di nazionalismo e si ostini a ricostruirne la genesi ideologica e dottrinale nelle grandi correnti del pensiero occidentale? Il passato agisce nell’ombra, diceva Sigmund Freud. Dietro ogni teoria c’è una biografia, ci ricorda Alberto Mingardi.

Alle fronde dei salici appenderemo le nostre cetre,…
Lungo i fiumi di Babilonia verseremo le nostre lacrime,…
È il Salmo 137, il Salmo dell’Esilio. Lo conosceva bene Eliahu Abdallah Kedourie, figlio malinconico di una Babilonia ebraica perduta, mentre scriveva Nazionalismo.

Alla luce di quanto sin qui abbiamo ricordato, viene spontaneo allora porsi una domanda. Perché il mondo arabo si svuota dei suoi ebrei nel corso di appena una generazione (1945-1970), dopo millenni di presenza ebraica in terra d’islam? Questa è la storia di un naufragio che inizia ben prima della nascita dello stato d’Israele. Un fallimento la cui genesi è riconducibile alla cesura culturale e sociale che si viene a creare quando gli ebrei si alfabetizzarono e si occidentalizzarono grazie all’arrivo delle potenze europee, agli inizi dell’Ottocento, e dei colonizzatori francesi e inglesi.

Da gruppo sottomesso e umiliato per secoli, gli ebrei si ritrovano nel giro di pochi decenni a poter accedere finalmente alle professioni liberali, agli incarichi pubblici, diventando il trait-d’union, la cerniera tra la società araba e l’amministrazione coloniale. È stato allora che le società ebraiche si sono ritrovate separate da un fossato incolmabile tra sé e le società arabe. A questo si aggiunga l’inversione di rotta di un destino storico, la fine di rapporti di forza nella dialettica servo-padrone: ma come, lo schiavo ebreo, il paria di ieri, oggi osa ribellarsi? Vuole studiare? Vuole competere con i suoi antichi “padroni”? Rivendica persino un suo Stato indipendente?

Ancora nel 1946, un alto funzionario francese, Etienne Coidan, in servizio in Marocco, parlava di “placido disprezzo” dei musulmani verso gli ebrei. Un giogo secolare, un’oppressione duratura giunta ben oltre la metà del XX secolo, come testimoniano i pogrom contro gli ebrei avvenuti a Tripoli sia nel novembre 1945, sia nel giugno 1967, a Bagdad nel 1941 (il Farhud), a Aleppo nel 1948 e prima ancora con l’incendio della Grande sinagoga, solo per citarne alcuni.

Docente all’Università di Tunisi nel 1967, il filosofo Michel Foucault raccontava da testimone oculare la micidiale miscela di razzismo e fanatico nazionalismo che infiammava le folle arabe, miscela che spinse le masse, debitamente fomentate, a scagliarsi contro il quartiere ebraico di Tunisi razziando negozi, bruciando sinagoghe, in preda a un rancore che covava da mesi e che aspettava solo una scintilla per esplodere. Un pogrom pianificato e organizzato a tavolino, con tanto di liste nere e indirizzi di ebrei, dei loro uffici, case, negozi. In seguito di tali accadimenti, mezzo governo tunisino venne destituito ma le angherie continuarono impunite fino all’agosto del 1967.

Da tempi immemorabili, la relazione reciproca tra i due gruppi si costruisce e si cristallizza intorno a un rapporto di potere che ha nel paradigma dominatore-dominato la sua chiave di lettura, e negli statuti della Dhimma e del Millet, il suo fondamento giuridico e teologico, essendo questi desunti in parte anche dal Corano. Una relazione a volte feconda e scambievolmente ricca, altre volte persecutoria e abusante, che attraversando le epoche storiche è giunta fino a noi.

Una giudeo-fobia trasportata in valigia con l’emigrazione maghrebina, araba e musulmana di Parigi, Londra, Amsterdam o Colonia, un corredo mentale che è stato duplicato in terra d’Europa reinnestando l’antisemitismo di un mondo arabo che ignorava le vicissitudini della Seconda Guerra Mondiale e non era per nulla coinvolto nelle vicende della Shoah.

Medici, farmacisti, consiglieri, stampatori, banchieri, commercianti, dragomanni, questi i mestieri degli ebrei presso la Sublime porta. Fu in questo contesto prospero e accogliente che iniziò a elaborarsi il Millet, un sistema giuridico-religioso ottomano che altro non era che una forma più evoluta e raffinata dell’istituto arabo-islamico della Dhimma. Il Millet regolamentava a livello giuridico i rapporti tra l’Islam ottomano e le tre nazioni presenti sul territorio imperiale: i greci, gli armeni, gli ebrei. Ad esempio, nessuno di loro, nei tribunali, aveva facoltà di testimoniare contro i musulmani e se un ebreo o un cristiano uccidevano un musulmano la pena era infinitamente maggiore che se non fosse accaduto il contrario. E che dire dello schiaffo simbolico, comminato per secoli dal funzionario di turno, in segno di umiliazione, quando l’ebreo andava a versare la tassa sulla persona, la gyza, o testatico, onde pagarsi “la protezione”?

La data ufficiale con cui inizia l’epoca delle colonie europee è il 1798, quando Napoleone Bonaparte sbarca in Egitto e dà il via alla razzia degli obelischi dei faraoni da parte dell’archeologo Jean-Francois Champollion.

Con l’arrivo degli europei in Nord Africa e in Medioriente, i rapporti di forza tra i vari gruppi mutano radicalmente. Gli ideali dell’Illuminismo contribuiscono a emancipare le minoranze oppresse, concedendo libertà, uguaglianza, diritti fino a allora impensabili. Perciò il colonialismo sarà vissuto in modo diametralmente opposto da ebrei e arabi. L’arrivo degli europei e l’esportazione degli ideali dei Lumi coincise, per gli ebrei, con l’emancipazione mentre per gli arabi si trattò di un tradimento, una diminutio incancellabile, un evento foriero di frustrazione, rancore, volontà di revanche che durano fino ad oggi.

Per le minoranze cristiana e ebraica, l’arrivo di francesi e inglesi segnò la fine di un destino di soprusi e umiliazioni, con finalmente la possibilità di un libero accesso agli studi, all’alfabetizzazione, alla parità di diritti, al non essere più sudditi di serie C, tassati, vessati, testa e occhi bassi. Quello che per gli ebrei fu quindi una liberazione, per gli arabi fu vissuta come una pugnalata, un’onta, una vergogna; il risentimento verso i colonizzatori s’incanalò verso gli ebrei, i poveracci di ieri, quelli che da millenni era legittimo prendere a calci e sassaiole.

Dopo secoli di alienazione e sottomissione alla Dhimma o al Millet, non c’è da stupirsi se a metà del XIX secolo, molti ebrei e cristiani d’Oriente accolsero a braccia aperte le potenze coloniali. E così, quella che dagli uni (ebrei, copti, cristiani…) fu vissuta come una liberazione, fu avvertita dagli altri, i musulmani, come un terribile tradimento, aggravato dal fatto che per la prima volta nel corso della sua storia, nella sua stessa terra, all’Islam veniva imposto che il non-musulmano fosse considerato alla pari del musulmano.

Ma com’era potuto accadere?, si sono chieste generazioni di arabi increduli. I paria di ieri adesso potevano essere considerati davvero uguali a un musulmano? Come potevano i sottomessi e gli infedeli su cui per secoli si erano potuti riversare le tensioni e il livore sociale, circolare impunemente e senza pagare dazio? Di fatto, gli umiliati e offesi di sempre erano diventati, grazie alle potenze coloniali e all’Illuminismo – con i suoi principi di Libertè, Egalitè, Fraternitè -, uguali e con pari dignità. Il risentimento islamico crebbe con il crescere della sfera d’influenza dei poteri inglese, francese e russo e con la conseguente emancipazione dalla Dhimma: così, la nuova condizione di ebrei e cristiani venne percepita vieppiù dai musulmani come intollerabile protervia.

Ci furono eccezioni. I due paesi che maggiormente recepirono le Riforme (Tanzimat), furono l’Egitto e l’Iraq dove fu possibile fondare collegi rabbinici, giornali e stamperie per lettori di religione ebraica. E si andò creando, talvolta, una feconda interazione col tessuto socio-culturale arabo più aperto.

Ricordiamolo: negli anni Quaranta, gli ebrei a Bagdad sono una presenza prospera, radicata, numerosa, 120.000 persone, un quarto della popolazione cittadina. La Bagdad ebraica è al passo con i tempi, vanta una élite culturale prestigiosa e all’avanguardia, il milieu intellettuale ebraico brulica di proposte e stimoli europei. Poi giunge il Farhud. Kedourie fugge a Londra nel 1947. Ha 22 anni, è un fuoriclasse, quell’esperienza così terribile si riflette anche in questo libro sul Nazionalismo e in generale sul suo percorso di studi e sui suoi interessi culturali.

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter